Quel taglio Rai è
incostituzionale
Il prelievo di 150
milioni sul canone non è legittimo.
Giusto imporre una cura
dimagrante al ventre molle dello Stato, ma il modo scelto non può andare bene.
Perché nello Stato di
diritto sono i mezzi che giustificano il fine
Di chi è la Rai? Del suo presidente Tarantola? Del direttore
generale Gubitosi, scelto anche lui dal (fu) premier Monti? E’ del grillino
Fico, che guida la commissione parlamentare d’indirizzo? E’ del governo Renzi,
che guida il Parlamento? No, La Rai è di tutti. E’ mia, è tua, è pure di chi
non ha (beato lui) un televisore sempre acceso nel salotto. Perché svolge un
servizio pubblico, nell’interesse generale. L’interesse a ricevere
un’informazione completa, per quanto possibile obiettiva, in grado di
promuovere lo sviluppo culturale del Paese. Le emittenti private possono anche
farlo, ma non è questa la loro specifica missione. L’imprenditoria televisiva
tende a fare cassa, non beneficienza.
Giusto Così, Ci
Mancherebbe. Ma
allora è ingiusto il decreto Irpef che mette le mani sulla Rai. Di più: è
incostituzionale. Lo scrivo qui dopo averlo scritto in un parere, che mi era
stato chiesto dal sindacato autonomo dei lavoratori Rai. Ho preso tempo prima
d’accettarlo: volevo capire quanto fosse fondata la questione. Anche se loro
erano (sono) molto preoccupati: ci vanno di mezzo migliaia di posti di lavoro,
ci va di mezzo Rai Way (l’azienda che permette la diffusione del segnale), ci
vanno di mezzo le sedi regionali della Rai. E hanno ragione. Non solo in via di
fatto, anche in punto di diritto.
Con quali argomenti? Perché il servizio pubblico ha senso
soltanto se rimane indipendente dal governo. Altrimenti ci regalerà un’informazione
partigiana, e allora tanto varrebbe spegnerlo, di tv faziose ne abbiamo già
abbastanza. E’ questo l’imperativo dettato in una sentenza storica della
Consulta (n.225 del 1974), benché strada facendo ce ne siamo un po’
dimenticati. Per dirne una, nel 2004 la
legge Gasparri ha permesso al governo di nominare due membri su nove del cda
Rai. Sarebbe stato troppo anche uno soltanto: non si può essere quasi
indipendenti, così come non si può avere una quasi gravidanza. Però al contempo
non può darsi alcuna indipendenza progettuale senza indipendenza economica. Se
i quattrini per la cena devi chiederli a tua suocera, sarà lei a decidere il
menù.
Ecco, il canone rappresenta lo strumento per garantir
l’indipendenza della Rai. Non può disporne quest’ultima a fini diversi
dall’attività televisiva (lo vieta il testo unico che disciplina la materia),
né tantomeno può disporne il potere esecutivo. Perché è una “tassa di scopo”,
come ha stabilito – di nuovo- la Consulta (sentenza n. 284 del 2002). Tal quale
l’Iscop, che serve a finanziare opere pubbliche da parte dei Comuni. E infatti
se il Comune non realizza l’opera nei due anni successivi, ha l’obbligo di
rimborsare i cittadini. Da qui un secondo profilo d’incostituzionalità del
decreto Irpef, che sequestra 150 milioni dal gettito del canone. Quel decreto
con una mano lede la Rai, con l’altra mano inganna gli italiani. Perché noi
paghiamo il canone per garantire l’indipendenza del servizio pubblico, così ci
hanno sempre raccontato. Ma se il governo lo utilizza per costruire asili o per
comprare aerei da combattimento, seppure lo destina per finanziare i mitici
caposaldo della Costituzione: la lealtà fiscale. Che vale per i contribuenti,
ma ugualmente vale per lo Stato.
Sicché In Ultimo sfuma la stessa razionalità dell’imposta. E
sfuma inoltre la progressività del sistema tributario, dato che il canone ha un
importo fisso, indifferente ai portafogli individuali. Infine, sfuma il principio d’uguaglianza fra settore pubblico
e privato. Nel 2012 il tribunale costituzionale annullò il contributo di
solidarietà sui redditi più alti, perché era a carico dei soli dipendenti
statali; questa volta il prelievo colpisce la Rai, lasciando indenni Mediaset,
Sky, la 7.Ci risiamo. Però errare è umano, perseverare è diabolico. Renzi ha
ragione a imporre una cura dimagrante al ventre molle dello Stato. Il problema
non è il “se” ma il “come”. In politica il fine giustifica i mezzi, diceva
Machiavelli. Tuttavia in uno Stato di diritto sono i mezzi che giustificano il
fine.
Michele Ainis – L’Espresso – 12 giugno 2014
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