“Io non è che sia
contrario al matrimonio,
però mi pare che un
uomo e una donna
siano le persone meno
adatte
Quando il postino
ricevette cinque nomination agli
Oscar io stavo trascorrendo le vacanze estive in una placida spiaggetta del
Nord del Cile. Il film aveva già avuto un’ottima accoglienza in molti Paesi,
tanto che perfino in quel luogo sperduto arrivarono dei giornalisti con le loro
telecamere, per intervistarmi e cercare di sviscerare, a beneficio dei loro
lettori, la “magia” della storia.
Io li accolsi cordialmente raccontando gli antefatti della
gestazione dell’opera, la drammatica storia del mio Paese, del golpe di
Pinochet, dell’esilio di Pablo Neruda a Capri negli anni 50. Prendevano nota di
tutto con una certa impazienza, finchè una bella giornalista americana rivelò
il vero motivo della loro visita. Era molto interessante tutto quello che
raccontavo, ma mi chiedeva un grande favore: volevano che li portassi dal vero
postino per intervistarlo; il direttore della sua rete televisiva glielo aveva
chiesto espressamente.
Intrappolato in mezzo a una selva di telecamere, cavi,
riflettori tecnici, non avevo vie di fuga. E non mi rimase altra scelta che
rivelare loro la terribile verità: il postino non esisteva, era solo il
prodotto della mia immaginazione, un essere inventato da un creatore che amava
il suo popolo e aveva riposto in questo umile personaggio alcune delle sue
migliori virtù, in particolare l’amore delle persone più semplici per la poesia.
I poeti parlavano della gente del popolo nelle loro poesie, e la gente del
popolo sentiva che i poeti erano i portavoce della sua vita e dei suoi sogni.
La delusione, per non dire l’orrore, comparvero sul volto
della giornalista e del suo seguito: la mandibola le scese di mezzo metro. Non
era possibile che il postino non esistesse! Il postino – mi disse la bella
bionda arrotolandosi i capelli intorno al dito – è così reale che “deve essere reale”.
Io sorrisi, perché la sua irritazione nei miei confronti in
fondo mi lusingava: avevo creato un personaggio immaginario che meritava di accedere
alla prodigiosa categoria del reale. Non è il sogno di qualsiasi scrittore?
Però non ero stato io, madame.
Era stato Troisi.
Era stata la profonda intensità della sua arte nella
creazione del personaggio, la sua capacità di estrarre grandezza dalla sua
piccolezza, poesia dalla sua goffaggine, filosofia della sua ingenuità e
meraviglia dove altri vedono solo routine, che aveva dato a Mario Ruoppolo uno
spessore reale.
Troisi fece un postino in cui riversò tutta la sua
spontaneità napoletana e la sua tecnica recitativa più complessa. Il sentimento
trovava sfogo attraverso il corpo molto prima che attraverso la parola, i suoi
gesti confusi indicavano chiaramente che il postino era posseduto da una grazia
che smaniava per esprimersi nonostante i limiti dell’istruzione e della
povertà.
L’interpretazione di Massimo nel Postino è una delle performance più brillanti che abbia mai visto
al cinema, di qualsiasi epoca e di qualsiasi Paese. Diciannove anni fa
ricevetti la nomination all’Oscar per
il miglior attore. Quando partecipai alla cerimonia di premiazione desideravo
disperatamente che la celeberrima statuetta potesse coronare la sua geniale
creazione. Lui non era presente, era morto l’ultimo giorno delle riprese. Non
riuscì a vedere proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il mondo quel
film che – come disse lui stesso – “stiamo facendo perché i nostri nipoti si
sentano orgogliosi di noi”. Quel film che continuò a fare nonostante i malanni
e le insidie del suo cuore malato, che durante le riprese gli inviava segnali
di allarme. Quel film che portò fino all’ultima scena anche se il regista gli
aveva proposto di sospenderlo: “Viene prima la tua salute. Un film non vale una
vita”. Al che Massimo avrebbe replicato: “Ma questo film è laveheart. E mia
vita”.
Non fu Troisi a vincere l’Oscar quell’anno. Il trionfatore fu
Mel Gibson con il suo Braveheart. E lo sconfitto, nel cinema e nella vita, fu
Massimo Troisi con il suo weak heart, il suo cuore debole.
La buona interpretazione di Gibson gli ha fruttato la dorata
e ambita statuetta. La superlativa interpretazione di Troisi, quello col cuore
debole, gli ha fruttato un altro premio: i cuori di milioni di spettatori in
tutto il mondo, emozionati a tal punto da inserire Il postino tra i loro film
indimenticabili.
Ho incontrato Massimo soltanto una volta, ma mi accompagna da
sempre. Ha dato una visibilità straordinaria al mio romanzo, e anche al resto
della mia opera. Quella visita a casa sua avvenne quando le riprese erano già
in programma ed esisteva una versione definitiva de copione, che lui aveva
letto attentamente. Davanti all’ingresso di casa sua c’era una macchina
impressionante, di quelle che si definiscono “gioiellini”. E dentro la casa
c’erano un paio di belle ragazze. E un poster sportivo appeso al muro.
E di questo parlammo: di ragazze, di calcio e di Neruda. Non
di automobili, perché io sono un guidatore lento e prudente. Provai con
qualcosa di italiano, basandomi sulla mia rudimentale conoscenza della musica
leggera degli anni 60: un po’ di Nicola Di Bari, Rita Pavone, Luigi Tenco,
Modugno. Ma lui tornava sempre a Neruda: come lo trattavo io? Gli davo del tu?
Era molto distante? Quando gli raccontai che le volte in cui passeggiavamo
insieme sulla spiaggia per la metà del tempo ridevamo per delle stupidaggini,
sembrò entusiasmarsi. Quindi era una persona “calda”? Sì, gli risposi io, era
“caldo”. E ricordo che gli citai un verso di Pablo dai Cento sonetti d’amore: “ Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
da risvegliare la furia del pallido e del freddo. (…) Non voglio che muoia la
mia eredità di allegria”. Poi sorrise, con quell’espressione che sembrava
contenere tutta la tenerezza del mondo e portandosi un dito alla tempia disse:
“Ho capito”.
Quello stesso pomeriggio l’auto della casa di produzione mi
portò dall’anziano produttore del fil, Mario Cecchi Gori, il padre di Vittorio.
Aveva letto il copione, era incantato dalla storia e dal personaggio. Però
aveva una grande preoccupazione: il postino secondo lui era un essere umano
talmente meraviglioso che il film non avrebbe dovuto concludersi con la sua
morte, che sarebbe stato un colpo troppo doloroso per il pubblico. Sperava che
io, essendo l’autore del romanzo, potessi convincere il regista e gli
sceneggiatori a salvarlo. Ma il suo tragico destino era già segnato: nel film e
nella vita.
Massimo fece un film di cui possono andare orgogliosi non
solo i suoi nipoti – se ne ha – ma l’Italia intera.
Con Il postino e i
suoi straordinari film precedenti, ci ha lasciato per sempre “la sua eredità di
allegria”.
(traduzione di Fabio
Galimberti)
Antonio Skàrmeta – Venerdì di Repubblica – 30 maggio 2014 -
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