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mercoledì 4 giugno 2014

Lo Sapevate Che: Il mio postino che, grazie a lui, è diventato vero...


“Io non è che sia contrario al matrimonio,
però mi pare che un uomo e una donna
siano le persone meno adatte

Quando il postino ricevette cinque nomination agli Oscar io stavo trascorrendo le vacanze estive in una placida spiaggetta del Nord del Cile. Il film aveva già avuto un’ottima accoglienza in molti Paesi, tanto che perfino in quel luogo sperduto arrivarono dei giornalisti con le loro telecamere, per intervistarmi e cercare di sviscerare, a beneficio dei loro lettori, la “magia” della storia.
Io li accolsi cordialmente raccontando gli antefatti della gestazione dell’opera, la drammatica storia del mio Paese, del golpe di Pinochet, dell’esilio di Pablo Neruda a Capri negli anni 50. Prendevano nota di tutto con una certa impazienza, finchè una bella giornalista americana rivelò il vero motivo della loro visita. Era molto interessante tutto quello che raccontavo, ma mi chiedeva un grande favore: volevano che li portassi dal vero postino per intervistarlo; il direttore della sua rete televisiva glielo aveva chiesto espressamente.
Intrappolato in mezzo a una selva di telecamere, cavi, riflettori tecnici, non avevo vie di fuga. E non mi rimase altra scelta che rivelare loro la terribile verità: il postino non esisteva, era solo il prodotto della mia immaginazione, un essere inventato da un creatore che amava il suo popolo e aveva riposto in questo umile personaggio alcune delle sue migliori virtù, in particolare l’amore delle persone più semplici per la poesia. I poeti parlavano della gente del popolo nelle loro poesie, e la gente del popolo sentiva che i poeti erano i portavoce della sua vita e dei suoi sogni.
La delusione, per non dire l’orrore, comparvero sul volto della giornalista e del suo seguito: la mandibola le scese di mezzo metro. Non era possibile che il postino non esistesse! Il postino – mi disse la bella bionda arrotolandosi i capelli intorno al dito – è così reale che “deve essere reale”.
Io sorrisi, perché la sua irritazione nei miei confronti in fondo mi lusingava: avevo creato un personaggio immaginario che meritava di accedere alla prodigiosa categoria del reale. Non è il sogno di qualsiasi scrittore?
Però non ero stato io, madame.
Era stato Troisi.
Era stata la profonda intensità della sua arte nella creazione del personaggio, la sua capacità di estrarre grandezza dalla sua piccolezza, poesia dalla sua goffaggine, filosofia della sua ingenuità e meraviglia dove altri vedono solo routine, che aveva dato a Mario Ruoppolo uno spessore reale.
Troisi fece un postino in cui riversò tutta la sua spontaneità napoletana e la sua tecnica recitativa più complessa. Il sentimento trovava sfogo attraverso il corpo molto prima che attraverso la parola, i suoi gesti confusi indicavano chiaramente che il postino era posseduto da una grazia che smaniava per esprimersi nonostante i limiti dell’istruzione e della povertà.
L’interpretazione di Massimo nel Postino è una delle performance più brillanti che abbia mai visto al cinema, di qualsiasi epoca e di qualsiasi Paese. Diciannove anni fa ricevetti la nomination all’Oscar per il miglior attore. Quando partecipai alla cerimonia di premiazione desideravo disperatamente che la celeberrima statuetta potesse coronare la sua geniale creazione. Lui non era presente, era morto l’ultimo giorno delle riprese. Non riuscì a vedere proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il mondo quel film che – come disse lui stesso – “stiamo facendo perché i nostri nipoti si sentano orgogliosi di noi”. Quel film che continuò a fare nonostante i malanni e le insidie del suo cuore malato, che durante le riprese gli inviava segnali di allarme. Quel film che portò fino all’ultima scena anche se il regista gli aveva proposto di sospenderlo: “Viene prima la tua salute. Un film non vale una vita”. Al che Massimo avrebbe replicato: “Ma questo film è laveheart. E mia vita”.
Non fu Troisi a vincere l’Oscar quell’anno. Il trionfatore fu Mel Gibson con il suo Braveheart. E lo sconfitto, nel cinema e nella vita, fu Massimo Troisi con il suo weak heart, il suo cuore debole.
La buona interpretazione di Gibson gli ha fruttato la dorata e ambita statuetta. La superlativa interpretazione di Troisi, quello col cuore debole, gli ha fruttato un altro premio: i cuori di milioni di spettatori in tutto il mondo, emozionati a tal punto da inserire Il postino tra i loro film indimenticabili.
Ho incontrato Massimo soltanto una volta, ma mi accompagna da sempre. Ha dato una visibilità straordinaria al mio romanzo, e anche al resto della mia opera. Quella visita a casa sua avvenne quando le riprese erano già in programma ed esisteva una versione definitiva de copione, che lui aveva letto attentamente. Davanti all’ingresso di casa sua c’era una macchina impressionante, di quelle che si definiscono “gioiellini”. E dentro la casa c’erano un paio di belle ragazze. E un poster sportivo appeso al muro.
E di questo parlammo: di ragazze, di calcio e di Neruda. Non di automobili, perché io sono un guidatore lento e prudente. Provai con qualcosa di italiano, basandomi sulla mia rudimentale conoscenza della musica leggera degli anni 60: un po’ di Nicola Di Bari, Rita Pavone, Luigi Tenco, Modugno. Ma lui tornava sempre a Neruda: come lo trattavo io? Gli davo del tu? Era molto distante? Quando gli raccontai che le volte in cui passeggiavamo insieme sulla spiaggia per la metà del tempo ridevamo per delle stupidaggini, sembrò entusiasmarsi. Quindi era una persona “calda”? Sì, gli risposi io, era “caldo”. E ricordo che gli citai un verso di Pablo dai Cento sonetti d’amore: “ Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura da risvegliare la furia del pallido e del freddo. (…) Non voglio che muoia la mia eredità di allegria”. Poi sorrise, con quell’espressione che sembrava contenere tutta la tenerezza del mondo e portandosi un dito alla tempia disse: “Ho capito”.
Quello stesso pomeriggio l’auto della casa di produzione mi portò dall’anziano produttore del fil, Mario Cecchi Gori, il padre di Vittorio. Aveva letto il copione, era incantato dalla storia e dal personaggio. Però aveva una grande preoccupazione: il postino secondo lui era un essere umano talmente meraviglioso che il film non avrebbe dovuto concludersi con la sua morte, che sarebbe stato un colpo troppo doloroso per il pubblico. Sperava che io, essendo l’autore del romanzo, potessi convincere il regista e gli sceneggiatori a salvarlo. Ma il suo tragico destino era già segnato: nel film e nella vita.
Massimo fece un film di cui possono andare orgogliosi non solo i suoi nipoti – se ne ha – ma l’Italia intera.
Con Il postino e i suoi straordinari film precedenti, ci ha lasciato per sempre “la sua eredità di allegria”.
(traduzione di Fabio Galimberti)
Antonio Skàrmeta – Venerdì di Repubblica – 30 maggio 2014 -


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