Ci sta o CI FA
“Starci” non è un verbo, è una dimensione dello spirito. Uso
piano: “Ho preso un box, è piccolo, ma la mia auto ci sta” (o, con perdonabile
pleonasmo: “ci sta dentro”). Uso adolescenziale: “Oh, a me andrebbe di fare un
giro in bicicletta: ci stai?”. Da questo uso negoziale, a proposito di qualcosa
che viene specificato nel contesto, si passa al “Ci stai?” sentimentale o
erotico, dove non c’è bisogno di specificare a far cosa. E torna ancora una
volta alla mente la remota puntata dell’”Altra domenica” in cui Renzo Arbore si
collegò con Cochi e Renato mentre ballavano il liscio a una festa paesana
lombarda. Renato protestò per l’intempestivo collegamento, con una sublime
forzatura sintattica: “Mi hai chiamato mentre ero con una che ci stava stando”.
Adesso a un o una possibile partner si possono fare proposte
risparmiando un fonema: non “ci stai, ma “ci sta”.
E’ non è che gli o le si sia del “lei”, come nel caso della
felliniana Gradisca (che però a quell’epoca forse avrebbe dovuto pronunciare
uno stara ciano e meno sensuale “Gradiate”). No, il senso sarebbe: “Ci sta che
uniamo i nostri corpi?”. Tanto tutto, a questo benedetto mondo, ci sta o non ci
sta. “Ci sta” bere un liquore dopo cena, “ci sta” un voto così così dopo tre
esami andati bene, “ci sta” un poco di ritardo in una consegna. A ben vedere,
l’onnipresente “ci sta” ha una tenace connotazione concessiva, proprio come nel
caso della Gradisca. Dà l’idea della vita come di un foglio excel nelle cui
diverse colonne sono impilati i budget delle nostre diverse disponibilità.
Tutti più o meno a dieta, dobbiamo decidere se uno strappetto “ci sta”. Tutti
più o meno di fretta, dobbiamo decidere se un weekend lungo, “per staccare”,
“ci sta”. Tutti più o meno sottoposti ai vincoli europei, dobbiamo decidere se
un piccolo sforamento “ci sta”. Proclamiamo “Ci sta” tormentone ufficiale
dell’Era della Trasgressione Controllata.
Anagramma: dire “ci sta?” = sì, di tacer
Stefano Bartezzaghi – L’Espresso 12 giugno 2014
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