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domenica 11 maggio 2014

Lo Sapevate Che: Tra Passioni e Frustrazioni i miei Giorni da Neurochirurgo...

Tra Passioni e Frustrazioni i Miei Giorni da Neurochirurgo

Duecento interventi l’anno. Soprattutto tumori, spesso bambini. Un grande medico racconta il mestiere più difficile

Non smetti mai di guardarti dentro, quando sei un neurochirurgo. Sono felice? E’ stata la scelta giusta? Dopo tanti anni mi domando ancora se non avrei fatto meglio a intraprendere un’altra strada. Essere un avvocato o qualunque altra cosa. Alla peggio perdi una causa o un’opportunità di business, mai una vita.
Non vorrei mai che i miei figli dovessero affrontare questa tensione, questo peso che ti porti a casa ogni sera quando, magari dopo le dieci, cucini qualcosa per rilassarti. A volte messo chilo di ravioli perché non hai pranzato. Manca il tempo. Anche se lavori tredici ore, non c’è tempo per nulla.
E’ gravoso il peso di ciò che hai affrontato durante la giornata e sai che è lo stesso ciò che ti aspetta il giorno dopo. Solo nel weekend, quando torno nelle campagne toscane, dalla mia compagna e dai miei figli, a curare l’orto, riesco ad alleggerire la tensione.
Vorrei che i miei figli avessero altri pensieri tornando a casa la sera, che non siano la frustrazione di non poter far nulla per un bambino, né la visione dei genitori che si consumano dietro la sua malattia. Porti a casa immagini di una crudeltà inaudita, assurda. Se fossi cattolico, vorrei chiedere a Dio il motivo di tanto accanimento sui bambini. E non c’è nessun supporto psicologico, nessun aiuto: sarebbe utile, ma forse non avremmo tempo neanche per quello.
Ho frequentato il liceo classico. Avevo una grande passione per il latino, complice mia madre, che lo insegnava. Durante gli anni del liceo frequentavo lezioni universitarie di filologia tedesca. Pensavo che Lettere fosse la mia strada. Ma mio padre non mi ha permesso di sceglierla: mi ha forzato a tornare alla vocazione manifestata da piccola quando, alla morte del nonno a cui ero tanto affezionato, avevo detto di voler fare il medico. Mi sono iscritto a Medicina. Non mi piaceva, frequentavo i corsi di latino di nascosto; fino all’incontro con un grande patologo, Salvatore Ruggieri, uomo di profonda cultura. Da allora ho bruciato le tappe.
La scelta della neurologia è stata dettata da un impeto romantico: il fratello della mia compagna di allora di epilessia e io decisi di occuparmene. Stavo per partire per la Francia quando si liberò un posto all’Istituto neurologico Besta, il tempio delle neuroscienze, ambitissimo, ma in cui sembrava impossibile entrare. La neurochirurgia vera era ed è qui. E’ il maggior centro in Italia, forse in Europa, di interventi di elezione. Io stesso ne eseguo circa duecento ogni anno: solo tumori, come avevo deciso di fronte al cancro del nonno.
La neurochirurgia, per manualità e tipo d’intervento, è la chirurgia più bella che esista. Il progresso tecnologico che l’ha radicalmente cambiata negli ultimi vent’anni ha permesso al neurochirurgo di essere attore di questo grande sviluppo. E questo vale soprattutto per chi, come me, svolge anche attività di ricerca. Però la frustrazione può essere grande.
Sette mesi fa è venuto da me un giovane: ho pensato che avrebbe potuto essere un mio amico. A volte i pazienti diventano amici e quando la malattia ritorna ti accorgi che la tua stata una vittoria di Pirro. Guardandolo negli occhi e spiegandogli che non c’era nessun trattamento per lui mi sono sentito un boia, un esecutore. E la sera a casa ho continuato a pensare. Chi sono io per dire una cosa simile a una persona? Ci vogliono grande equilibrio e profonda maturità, la capacità di affrontare ogni imprevisto a nervi saldi, la freddezza che ti permette di ragionare con lucidità. Ho visto colleghi perderla, ed è la cosa peggiore che possa capitare in sala operatoria. La maturità ti permette di essere in pace con te stesso e sapere che stai facendo la cosa giusta.
In questo lavoro serve un carattere forte, ma anche ambizione unita ad autostima. Il che non vuol dire credersi un superuomo. Questo mito, che ha contagiato molto miei predecessori, sopravvive in qualche giovane che pensa di avere potere di vita o di morte. E’ inaccettabile e criminale.
Alla Johns Hopkins Medical School di Baltimora, dove mi sono specializzato in neuro oncologia chirurgica e dove oggi insegno, ho imparato che dietro al successo cìè un lavoro d’èquipe: anestesista, ferrista, infermiere, neurofisiologo, assistente del neurochirurgo, specializzando. In sala sono presenti dieci, dodici persone che controllano sul monitor ogni passo dell’operazione. Chiunque si accorga che qualcosa non va bene deve sentirsi in diritto di segnalarlo.
Gran parte di ciò che sono diventato e che ho portato al Besta dipende dalla mia esperienza americana. Alla Johns Hopkins i premi Nobel che incontravi nei corridoi ti trattavano da pari. In sala operatoria il neurochirurgo è coordinatore di un gruppo di professionisti di pari dignità.
Poi ci sono gli strumenti. Io in sala operatoria uso l’ecografo da qualche anno e non riesco più a farne a meno. La tecnica si apprende con l’esperienza. Practice makes perfect. E’la pratica che conta. Per questo nel mio team anche i giovani operano presto.
Tra protocolli da seguire, lavoro d’équipe, strumentazione e pratica, la sala operatoria non è la parte più complessa della vita di un neurochirurgo. E’ più difficile tutto il resto: le relazioni con il paziente e con i familiari, che a volte ancora oggi non vogliono che il malato sappia.
Entrare ogni giorno in sala diventa quasi una routine, come pilotare un aereo: sei talmente sicuro che non fai  più caso più caso ai vuoti d’aria. Non tutto però è routine: la tensione è alta soprattutto se operi un bambino e se è un intervento particolarmente difficile. E c’è sempre un momento in cui sei solo e devi decidere, in fretta. Per esempio quando sai che asportando una parte del cervello ancora intaccata dal tumore comprometteresti una funzione importante. Nonostante tu sia coadiuvato da un’ équipe e il caso sia dibattuto a fondo, in quel momento sei solo e devi decidere , in quell’attimo ti giochi tutto, per te e per il paziente. A volte non sai mai se hai fatto la scelta migliore. Magari incidi su un aspetto del carattere di una persona, sul suo modo di essere. Fa parte della complessità del cervello. E’ il momento più difficile. Scegliere se continuare o lasciar perdere, accettare che proseguendo creerai un danno irreparabile, magari la morte.
Negli Usa è previsto l’Advanced care planning, prima dell’intervento si parla di ciò che potrebbe accadere e di come affrontarlo. In Italia non esiste. Andrebbe chiarito per legge l’obbligo di discutere in quel modo, ma in Italia su questi temi c’è una situazione di stallo. E neanche il paziente si avventura in questa dimensione. Forse significherebbe dover ammettere che un incidente potrebbe capitare, che potrebbe esserci un dopo in cui nessuna scelta sarà più possibile.
(Testo raccolto da Daniela Condorelli)
Francesco DiMeco – Donna di Repubblica – 3 maggio 2014


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