Tra Passioni e
Frustrazioni i Miei Giorni da Neurochirurgo
Duecento interventi
l’anno. Soprattutto tumori, spesso bambini. Un grande medico racconta il
mestiere più difficile
Non smetti mai di guardarti dentro, quando sei un
neurochirurgo. Sono felice? E’ stata la scelta giusta? Dopo tanti anni mi
domando ancora se non avrei fatto meglio a intraprendere un’altra strada.
Essere un avvocato o qualunque altra cosa. Alla peggio perdi una causa o
un’opportunità di business, mai una vita.
Non vorrei mai che i miei figli dovessero affrontare questa
tensione, questo peso che ti porti a casa ogni sera quando, magari dopo le
dieci, cucini qualcosa per rilassarti. A volte messo chilo di ravioli perché
non hai pranzato. Manca il tempo. Anche se lavori tredici ore, non c’è tempo
per nulla.
E’ gravoso il peso di ciò che hai affrontato durante la
giornata e sai che è lo stesso ciò che ti aspetta il giorno dopo. Solo nel
weekend, quando torno nelle campagne toscane, dalla mia compagna e dai miei
figli, a curare l’orto, riesco ad alleggerire la tensione.
Vorrei che i miei figli avessero altri pensieri tornando a
casa la sera, che non siano la frustrazione di non poter far nulla per un
bambino, né la visione dei genitori che si consumano dietro la sua malattia.
Porti a casa immagini di una crudeltà inaudita, assurda. Se fossi cattolico,
vorrei chiedere a Dio il motivo di tanto accanimento sui bambini. E non c’è
nessun supporto psicologico, nessun aiuto: sarebbe utile, ma forse non avremmo
tempo neanche per quello.
Ho frequentato il liceo
classico. Avevo una grande passione per il latino, complice mia madre, che lo
insegnava. Durante
gli anni del liceo frequentavo lezioni universitarie di filologia tedesca.
Pensavo che Lettere fosse la mia strada. Ma mio padre non mi ha permesso di
sceglierla: mi ha forzato a tornare alla vocazione manifestata da piccola
quando, alla morte del nonno a cui ero tanto affezionato, avevo detto di voler
fare il medico. Mi sono iscritto a Medicina. Non mi piaceva, frequentavo i
corsi di latino di nascosto; fino all’incontro con un grande patologo,
Salvatore Ruggieri, uomo di profonda cultura. Da allora ho bruciato le tappe.
La scelta della neurologia è stata dettata da un impeto
romantico: il fratello della mia compagna di allora di epilessia e io decisi di
occuparmene. Stavo per partire per la Francia quando si liberò un posto
all’Istituto neurologico Besta, il tempio delle neuroscienze, ambitissimo, ma
in cui sembrava impossibile entrare. La neurochirurgia vera era ed è qui. E’ il
maggior centro in Italia, forse in Europa, di interventi di elezione. Io stesso
ne eseguo circa duecento ogni anno: solo tumori, come avevo deciso di fronte al
cancro del nonno.
La neurochirurgia, per
manualità e tipo d’intervento, è la chirurgia più bella che esista. Il progresso tecnologico che l’ha
radicalmente cambiata negli ultimi vent’anni ha permesso al neurochirurgo di
essere attore di questo grande sviluppo. E questo vale soprattutto per chi,
come me, svolge anche attività di ricerca. Però la frustrazione può essere grande.
Sette mesi fa è venuto da me un giovane: ho pensato che
avrebbe potuto essere un mio amico. A volte i pazienti diventano amici e quando
la malattia ritorna ti accorgi che la tua stata una vittoria di Pirro.
Guardandolo negli occhi e spiegandogli che non c’era nessun trattamento per lui
mi sono sentito un boia, un esecutore. E la sera a casa ho continuato a
pensare. Chi sono io per dire una cosa simile a una persona? Ci vogliono grande
equilibrio e profonda maturità, la capacità di affrontare ogni imprevisto a
nervi saldi, la freddezza che ti permette di ragionare con lucidità. Ho visto
colleghi perderla, ed è la cosa peggiore che possa capitare in sala operatoria.
La maturità ti permette di essere in pace con te stesso e sapere che stai
facendo la cosa giusta.
In questo lavoro serve
un carattere forte, ma anche ambizione unita ad autostima. Il che non vuol dire
credersi un superuomo.
Questo mito, che ha contagiato molto miei predecessori, sopravvive in qualche
giovane che pensa di avere potere di vita o di morte. E’ inaccettabile e
criminale.
Alla Johns Hopkins Medical School di Baltimora, dove mi sono
specializzato in neuro oncologia chirurgica e dove oggi insegno, ho imparato
che dietro al successo cìè un lavoro d’èquipe: anestesista, ferrista, infermiere,
neurofisiologo, assistente del neurochirurgo, specializzando. In sala sono
presenti dieci, dodici persone che controllano sul monitor ogni passo
dell’operazione. Chiunque si accorga che qualcosa non va bene deve sentirsi in
diritto di segnalarlo.
Gran parte di ciò che sono diventato e che ho portato al
Besta dipende dalla mia esperienza americana. Alla Johns Hopkins i premi Nobel
che incontravi nei corridoi ti trattavano da pari. In sala operatoria il
neurochirurgo è coordinatore di un gruppo di professionisti di pari dignità.
Poi ci sono gli strumenti. Io in sala operatoria uso
l’ecografo da qualche anno e non riesco più a farne a meno. La tecnica si
apprende con l’esperienza. Practice makes
perfect. E’la pratica che conta. Per questo nel mio team anche i giovani
operano presto.
Tra protocolli da
seguire, lavoro d’équipe, strumentazione e pratica, la sala operatoria non è la
parte più complessa della vita di un neurochirurgo. E’ più difficile tutto il resto: le
relazioni con il paziente e con i familiari, che a volte ancora oggi non
vogliono che il malato sappia.
Entrare ogni giorno in sala diventa quasi una routine, come
pilotare un aereo: sei talmente sicuro che non fai più caso più caso ai vuoti d’aria. Non tutto
però è routine: la tensione è alta soprattutto se operi un bambino e se è un
intervento particolarmente difficile. E c’è sempre un momento in cui sei solo e
devi decidere, in fretta. Per esempio quando sai che asportando una parte del
cervello ancora intaccata dal tumore comprometteresti una funzione importante.
Nonostante tu sia coadiuvato da un’ équipe e il caso sia dibattuto a fondo, in
quel momento sei solo e devi decidere , in quell’attimo ti giochi tutto, per te
e per il paziente. A volte non sai mai se hai fatto la scelta migliore. Magari
incidi su un aspetto del carattere di una persona, sul suo modo di essere. Fa
parte della complessità del cervello. E’ il momento più difficile. Scegliere se
continuare o lasciar perdere, accettare che proseguendo creerai un danno
irreparabile, magari la morte.
Negli Usa è previsto l’Advanced
care planning, prima dell’intervento si parla di ciò che potrebbe accadere
e di come affrontarlo. In Italia non esiste. Andrebbe chiarito per legge
l’obbligo di discutere in quel modo, ma in Italia su questi temi c’è una
situazione di stallo. E neanche il paziente si avventura in questa dimensione.
Forse significherebbe dover ammettere che un incidente potrebbe capitare, che
potrebbe esserci un dopo in cui nessuna scelta sarà più possibile.
(Testo raccolto da Daniela Condorelli)
Francesco
DiMeco – Donna di Repubblica – 3 maggio 2014
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