Ai vertici delle grandi
agenzie internazionali siedono dei giovani italiani che ce l’hanno fatta,
anche se non hanno un paese alle spalle. Al contrario degli altri….
New York. Sono l’avanguardia di un piccolo
esercito che l’Italia ignora, mentre dovrebbe esserne fiera. “In fondo” dice
Furio de Tommasi “qui si trova un laboratorio della globalizzazione 2.0.
Dall’istruzione al governo delle risorse naturali del pianeta, dalla promozione
dei diritti delle donne alle gravi siccità che affliggono vaste zone del mondo,
spesso qui s’incrociano i problemi e il know how tecnico, si un mondo un po’
più vivibile”.
Quel “qui”, è prima di tutto New York, Palazzo di Vetro. Poi
tante altre sedi delle Nazioni Unite, da Ginevra a Hanoi o Bogotà, avamposti di
agenzie specializzate. Sui fronti caldi delle emergenze planetarie. Quasi
nessuno in Italia lo sa, ma diverse agenzie Onu che si occupano di povertà,
guerre, guerre civili, lotta alle epidemie, istruzione nei Paesi poveri, hanno
delle funzionarie e dei funzionari italiani ai loro vertici. Ne incontro nove
qui a New York, a pochi metri dal Palazzo di Vetro. Le loro storie hanno questo
elemento in comune: si sono fatti strada quasi sempre da soli, in un sistema
meritocratico dove alla fine le loro capacità contano.
Purtroppo l’Italia non sa valorizzare queste risorse. Tutto
il contrario di quel che fanno Germania, Francia: loro hanno delle sezioni
speciali dei ministeri degli Esteri che fungono da “uffici di collocamento e promozione”
per piazzare i loro connazionali nelle caselle di potere dei grandi organismi
internazionali. E’ una storia importante per noi anche perché non si limita
alle Nazioni Unite, ha analogie e parallelismi alla Commissione europea e in
altri centri di regia della governance globale.
Bruno Moro cominciò quasi trent’anni fa dirigendo gli aiuti
di emergenza per la siccità in Kenya, ha coordinato la protezione civile per
gli uragani nei Caraibi, poi programmi di lotta alla povertà in Columbia.
Silvia Bonacito è consulente del segretario generale Ban Ki-Moon su sanità e
sicurezza alimentare. Francesca Jannotti Pecci lavora per la protezione dei
bambini nei conflitti dell’Africa sub sahariana. Ugo Solinas ha guidato gli
aiuti per Haiti. De Tommasi ha aiutato il Burundi a fare il suo primo
censimento demografico. Marco Bianchini è un esperto di operazioni
peace-keeping. Alessandro Caselli, Carlotta Truncati, Joe Colombano: ognuno ha
storie importanti dietro di sé, ciascuna meriterebbe di essere esplorata. Ma li
riunisco per parlare di un problema comune. Che cosa significa essere italiani
dentro l’Onu? Che cosa li distingue? Come si muovono gli altri sistemi-paese
per farsi valere dentro i grandi organismi sovranazionali? “La nazionalità
conta” dice Moro “soprattutto per arrivare in alto, nei posti di maggiore
responsabilità. Ci sono sistemi di quote, talvolta legati allo sforzo di
finanziamento di ciascun Paese, altre volte proporzionali alla dimensione, o
allo status di membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Più di tutto però
conta il fatto che dietro alle proprie spalle ci sia una nazione che crede
davvero ad alcune sfide, che ha dei progetti per il mantenimento della pace, lo
sviluppo economico, l’ambente, l’alfabetizzazione, la prevenzione delle malattie,
e questi progetti sa perseguirli con costanza e determinazione”.
Si scopre che noi italiani, forse convinti di avere inventato
per primi la “raccomandazione”, le cordate e gli appoggi per le assunzioni e
promozioni, in realtà siamo dei dilettanti in questo campo. “I tedeschi” dice
de Tomassi “hanno un intero palazzo a Berlino, un ufficio enorme, che si occupa
solo delle carriere dei loro funzionari internazionali. Li convocano
annualmente a Berlino per pianificare strategicamente le loro prossime promozioni,
spostamenti, nomine. Inglesi, francesi, nazioni di stazza simile alla nostra,
hanno anche loro una grande attenzione. Soprattutto hanno continuità: non
importa chi ci sia al governo, non importa il nome del ministro o il suo
partito politico, l’alternanza non cambia l’attenzione verso i propri
funzionari negli organismi internazionali”.
Questo può forse sembrare un cruccio da privilegiati. Con i
problemi della disoccupazione giovanile italiana, con la crisi economica, le
risorse che mancano, le arretratezze del Paese, perché dovremmo preoccuparci di
favorire le carriere di questi tecnocrati all’estero. Beati loro, che ce
l’hanno fatta, in confronto a tanti giovani di talento che in Italia non hanno
un posto. Ma ragionare così è un errore. Non si tratta di scambiare l’Onu o il
Fondo monetario o la Banca mondiale per degli uffici di collocamento riservati
a Vip. Sono centri importanti per decidere anche il nostro futuro. Sono le
cabine di regia dove si affrontano le sfide della globalizzazione. Sono anche
delle “stanze di compensazione” dove si negozia tra interessi nazionali, e
ciascun Paese lotta per far valore le proprie esigenze. Sono anche, certo,
delle occasioni di lavoro e di esperienza importanti, di cui non dobbiamo
privare quei giovani italiani che hanno capacità e competenze da spendere qui.
“Il nostro background culturale è apprezzato” dice Carlotta
Trincati “ e l’italianità è davvero un valore. Spesso in queste sedi
internazionali noi siamo apprezzati perché più flessibili, abbiamo capacità di ascolto,
non siamo arroganti”. La Trincati riconosce che il suo posto lo deve
all’Italia, è una di quei giovani che sono al Palazzo di Vetro grazie a
programmi finanziati da Roma. Anche lei però è impressionata dalla forza di
altri collettivi nazionali: “La Germania usa i suoi funzionari come una
squadra, li consulta e li riunisce, è sempre pronta con un candidato per il
posto che si libera. Lo stesso fa il Dipartimento di Stato Usa, che nel suo
sito Internet, aggiorna costantemente la mappa degli incarichi vacanti”. La
Pecci conferma che gli ambasciatori tedeschi possono essere dei grandi maestri
nell’arte della raccomandazione.
Alessandro Caselli aggiunge che gli americani “hanno una
forza di networking formidabile, quella degli ex-allievi delle loro grandi
università come Harvard Columbia”. Noi
parleremmo di cordate, ma networking
suona più nobile e moderno. Spesso l’inferiorità degli italiani ci dà una
marcia in più, paradossalmente, è una molla psicologica che scatena l’agonismo,
l’ansia di rivalsa: “Se non ho dietro un sistema-paese” dice Colombani “mi
sento ancora più motivato a farmi valore io, a dimostrare quel che so fare”. A
lungo andare, però, trascurare queste risorse umane è un danno per l’Italia.
“Avere un ruolo incisivo qui all’Onu” dice Moro “significa trasferire dentro un
concerto mondiale di nazioni i propri valori, i propri modelli, proiettare una
visione verso i Paesi in via di sviluppo che spesso attendono risposte da noi”.
Lo stesso vale al Fondo monetario o alla Banca mondiale di Washington.
Questo incontro me lo ha organizzato proprio l’ambasciatore
italiano all’Onu, Sebastiano Cardi, coinvolto che il nostro Paese abbia un
ritardo da superare. Cardi è un diplomatico che sa darsi da fare, è arrivato
qui da poco e già l’Italia si è distinta per iniziative importanti contro il
femminilismo e le violenze sessuali nei conflitti, per la riduzione degli
arsenali di distruzione di massa, per la salvaguardia degli oceani. E la scarsa
visibilità dei nostri all’Onu non è solo colpa dei governi, dei ministri che si
alternano troppo spesso e ricominciano da zero. “Qual è” si chiede de Tommasi
“la visione di lungo termine che l’Italia ha del suo contributo alle decisioni
internazionali? Per pungolare i governi ci vuole un interesse dell’Italia
intera, serve un dibattito nazionale attento. Troppo spesso l’Italia
s’imbozzola nel suo provincialismo, a ogni elezione si guarda l’ombelico, e
lascia ad altre nazioni la qualità preziosa della continuità.
Federico Rampini – Venerdì di Repubblica – 23 maggio 2014
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