Scrive Goethe: “Mi è
odioso ciò che mi istruisce, senza accrescere o vivificare immediatamente, la
mia attività”
Da giovane musicista mi sono trovata a suonare in
un’orchestra stabile, e quello che mi ha colpito era la scarsa passione che i
musicisti mettevano nella propria professione, ridotta a una sorta di “lavoro a
catena” in stile industriale. I dipendenti timbrano il cartellino, lavorano
quelle sei ore di rito e se ne tornano a casa. Ingenuamente cresciuta con
l’idea che quella del musicista fosse una professione diversa da ogni altra
perché richiede un particolare coinvolgimento emotivo, trovandomi davanti a un
simile appiattimento emotivo degli orchestrali, tutti presi dalle loro
scaramucce burocratiche e sindacali, sono rimasta piuttosto stordita. In fondo
non si è mai preparati al crollo dei propri ideali. Ci trovavamo in una
produzione molto impegnativa, con un direttore molto bravo, ma il giorno prima
del concerto, viene annullato. Qual’ è la lezione che noi giovani dovremmo
trarre da questa esperienza? Se si uccide la passione nei giovani come potremo
risorgere come Paese? Perché alla fine il problema sta colando a picco insieme
all’Italia, ma se questo è lo spirito dei lavoratori della cultura, la cosa non
mi stupisce più di tanto.
Lettera firmata
Il problema che lei pone è davvero importante e riguarda la
differenza tra lavoro alienante e lavoro non alienante. Chiamo “alienanti” quei
lavori che non realizzano noi stessi, ma gli obbiettivi degli apparati di
appartenenza. Tali sono i lavori dei metalmeccanici, delle commesse dei
supermercati, degli impiegati negli uffici, delle collaboratrici domestiche,
degli operatori ecologici, di quanti operano nei call center, dove non vedo
altra motivazione pe l’impegno nel lavoro che non sia lo stipendio. Poi ci sono
lavori “non alienanti”, tali perché chi li esercita realizza se stesso, la
propria vocazione, la propria passione. E questo, oltre a essere un privilegio,
è senz’altro un compenso decisamente superiore a quello rappresentato dallo
stipendio. Vale per i musicisti, gli attori, gli artisti delle arti figurative,
gli scrittori, e perché no: gli insegnanti, i ricercatori, professori
universitari, i medici, i giornalisti e via elencando.
In una società che ci prevede sempre più come funzionari di
apparati e sempre meno come persone, che ci fa lavorare sempre più spesso per
gli scopi che si propongono “altri” (questo è il senso della parola
“alienazione”), chiedendoci esclusivamente efficienza e produttività,
trascurando il bisogno naturale presente in ciascuno di noi che è
l’autorizzazione, chi è sottratto alla condanna di vivre quotidianamente una
vita non sua non dovrebbe ignorare questo privilegio e sacrificarlo per
rivendicazioni monetarie che non pagano quanto paga una vita che garantisce la
possibilità di essere se stessi e di potersi esprimere secondo la propria
vocazione.
Ma per questo ci vuole passione e non solo abilità e
competenza. Ciò significa che occorre una drastica selezione che consenta di non
arruolare insegnanti demotivati, medici più attenti al profitto che ai
pazienti, artisti più amanti dei compensi che della loro arte. Poi ci sono i
giovani, spesso più bravi degli arruolati, e più motivati dall’entusiasmo che
dalla remunerazione. Perché lasciarli ai margini e utilizzarli con compensi da
fame, in sostituzione di professionisti demotivati che non perdono occasione
pur di non essere sul posto del loro privilegiato lavoro?
C’è un ultimo aspetto nella sua lettera che richiama il senso
di responsabilità. Gli operatori della cultura sono responsabili del livello
culturale del nostro Paese. E com’è che noi italiani, pur disponendo di un
patrimonio artistico e culturale che ci invidia tutto il mondo, nelle
classifiche europee occupiamo posti di mezzo, quando addirittura non di bassa
classifica? Si fa ancora fatica a capire che dal livello culturale di un Paese
dipende anche la sua ricchezza e le sue possibilità di crescita. E se questo
non avviene, di chi è la colpa se non del basso profilo dei nostri operatori
culturali? Qui veniamo al punto più dolente della nostra struttura sociale, che
non presta sufficiente attenzione alla scuola, all’istruzione, all’educazione.
Perché non può esserci futuro per la musica, per il teatro, per l’arte, se
queste discipline sono praticamente assenti dalla nostra scuola e la maggior
parte della popolazione è del tutto estranea a questi mondi. La tv, solo per
citare un mass media pervasivo, ha grandi responsabilità in questa mancata
educazione di massa, senza la quale riempiremo gli stadi, ma non pinacoteche,
teatri e sale da concerto.
umbertogalimberti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 17 maggio 2014
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