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mercoledì 21 maggio 2014

Lo Sapevate Che: Spazio ai giovani che sanno cos'è la passione...




Scrive Goethe: “Mi è odioso ciò che mi istruisce, senza accrescere o vivificare immediatamente, la mia attività”
Da giovane musicista mi sono trovata a suonare in un’orchestra stabile, e quello che mi ha colpito era la scarsa passione che i musicisti mettevano nella propria professione, ridotta a una sorta di “lavoro a catena” in stile industriale. I dipendenti timbrano il cartellino, lavorano quelle sei ore di rito e se ne tornano a casa. Ingenuamente cresciuta con l’idea che quella del musicista fosse una professione diversa da ogni altra perché richiede un particolare coinvolgimento emotivo, trovandomi davanti a un simile appiattimento emotivo degli orchestrali, tutti presi dalle loro scaramucce burocratiche e sindacali, sono rimasta piuttosto stordita. In fondo non si è mai preparati al crollo dei propri ideali. Ci trovavamo in una produzione molto impegnativa, con un direttore molto bravo, ma il giorno prima del concerto, viene annullato. Qual’ è la lezione che noi giovani dovremmo trarre da questa esperienza? Se si uccide la passione nei giovani come potremo risorgere come Paese? Perché alla fine il problema sta colando a picco insieme all’Italia, ma se questo è lo spirito dei lavoratori della cultura, la cosa non mi stupisce più di tanto.
Lettera firmata

Il problema che lei pone è davvero importante e riguarda la differenza tra lavoro alienante e lavoro non alienante. Chiamo “alienanti” quei lavori che non realizzano noi stessi, ma gli obbiettivi degli apparati di appartenenza. Tali sono i lavori dei metalmeccanici, delle commesse dei supermercati, degli impiegati negli uffici, delle collaboratrici domestiche, degli operatori ecologici, di quanti operano nei call center, dove non vedo altra motivazione pe l’impegno nel lavoro che non sia lo stipendio. Poi ci sono lavori “non alienanti”, tali perché chi li esercita realizza se stesso, la propria vocazione, la propria passione. E questo, oltre a essere un privilegio, è senz’altro un compenso decisamente superiore a quello rappresentato dallo stipendio. Vale per i musicisti, gli attori, gli artisti delle arti figurative, gli scrittori, e perché no: gli insegnanti, i ricercatori, professori universitari, i medici, i giornalisti e via elencando.
In una società che ci prevede sempre più come funzionari di apparati e sempre meno come persone, che ci fa lavorare sempre più spesso per gli scopi che si propongono “altri” (questo è il senso della parola “alienazione”), chiedendoci esclusivamente efficienza e produttività, trascurando il bisogno naturale presente in ciascuno di noi che è l’autorizzazione, chi è sottratto alla condanna di vivre quotidianamente una vita non sua non dovrebbe ignorare questo privilegio e sacrificarlo per rivendicazioni monetarie che non pagano quanto paga una vita che garantisce la possibilità di essere se stessi e di potersi esprimere secondo la propria vocazione.
Ma per questo ci vuole passione e non solo abilità e competenza. Ciò significa che occorre una drastica selezione che consenta di non arruolare insegnanti demotivati, medici più attenti al profitto che ai pazienti, artisti più amanti dei compensi che della loro arte. Poi ci sono i giovani, spesso più bravi degli arruolati, e più motivati dall’entusiasmo che dalla remunerazione. Perché lasciarli ai margini e utilizzarli con compensi da fame, in sostituzione di professionisti demotivati che non perdono occasione pur di non essere sul posto del loro privilegiato lavoro?
C’è un ultimo aspetto nella sua lettera che richiama il senso di responsabilità. Gli operatori della cultura sono responsabili del livello culturale del nostro Paese. E com’è che noi italiani, pur disponendo di un patrimonio artistico e culturale che ci invidia tutto il mondo, nelle classifiche europee occupiamo posti di mezzo, quando addirittura non di bassa classifica? Si fa ancora fatica a capire che dal livello culturale di un Paese dipende anche la sua ricchezza e le sue possibilità di crescita. E se questo non avviene, di chi è la colpa se non del basso profilo dei nostri operatori culturali? Qui veniamo al punto più dolente della nostra struttura sociale, che non presta sufficiente attenzione alla scuola, all’istruzione, all’educazione. Perché non può esserci futuro per la musica, per il teatro, per l’arte, se queste discipline sono praticamente assenti dalla nostra scuola e la maggior parte della popolazione è del tutto estranea a questi mondi. La tv, solo per citare un mass media pervasivo, ha grandi responsabilità in questa mancata educazione di massa, senza la quale riempiremo gli stadi, ma non pinacoteche, teatri e sale da concerto.
umbertogalimberti@repubblica.it  - Donna di Repubblica – 17 maggio 2014

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