Così vincono i peggiori
Assordati dalle litanie dei crociati
delle “riforme”, potremmo credere che qualsiasi riforma sia l’abracadabra che
“rimette in moto il Pese”. E’ vero il contrario, basta pensare all’università.
La riforma Gelmini, poi legittimata dalla non brillante sequenza di tre
ministri-rettori, ha aggravato molti problemi senza risolverne alcuno. Sul
fronte del reclutamento, ha confermato la sindrome bipolare del sistema: dopo
sette anni di paralisi, un’ondata di “abilitazioni” e assunzioni, con decine di
migliaia di abilitati ma non assunti.
Il processo degenerativo cominciò con
gli ope legis del 1980, seguiti da un lungo blocco delle assunzioni, poi da
concorsi localistici del ministro Berlinguer (1998), con assunzioni in massa
seguite da nuovo blocco. In questa deriva, molti dei migliori lasciano
l’Italia, i docenti sono sempre più vecchi, e al loro posto spuntano i precari
(costano meno).
Una serrata del maggior consiglio ha
espulso gli associati dalle commissioni giudicatrici, e gli ordinari rimasti
padroni del campo ne approfittano spesso per ridisegnare la disciplina a
propria immagine e somiglianza esiliando chi non la pensa come loro.
La farsesca abolizione delle Facoltà,
ribattezzate dipartimenti con nomi fantasiosi che li rendono irriconoscibili
oltreconfine, impegna i professori in sorde lotte di micro potere mettendo in
sordina la ricerca con enorme svantaggio degli studenti. Il mantra principale
di queste riforme è che siano a costo zero. Ma le riforme a costo zero producono
molto meno di zero, perché vietano di adeguarsi ai migliori standard
internazionali, ma anche perché accrescono il peso lavorativo sui singoli
abbassando l’efficienza del sistema. Dobbiamo dunque invocare un’altra riforma?
Sì, se imparassimo che nel gioco dell’oca delle riforme una regola c’è: più si
affidano a chi non ne sa nulla, più è sicuro che vinceranno i peggiori. E
l’Italia perderà.
Salvatore Settis – L’espresso – 16
maggio 2014
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