L’Anno Scorso sono stati celebrati i quarant’anni
del Punk. A Londra incontri, mostre, eventi ne hanno ripercorso la storia,
riportando a galla tutte quelle straordinarie immagini definite dalla
sgranatura di un bianco/nero cattivo che ha cambiato la musica, la moda e
l’attitudine di moltissimi di noi. Sicuramente il punk, con tutta la sua
ribellione autodistruttiva, romanticamente fine a sé stessa, con tutti quegli
elementi che hanno definito uno stile come “gesso contro”, è il movimento che,
pur nella sua brevissima vita (1974-1976), ha lasciato il segno più profondo.
“La vita ordinaria è così monotona che ne esco il più possibile”, sosteneva in
Melody Maker Steve Jones, uno sei Sex Pistols. La controcultura diventa quindi
stile, prima che musica. Sono Vivienne Westwood e il musicista Malcolm Mclaren,
figlio di un sarto, allora manager e anima teorica della band Sex Pistols, ad
aprire quel primo negozio a Londra (nel 1971) che pone le basi per la nascita
del punk. Nato come Let ItRock, poi
diventato Sexe Seditionaries, sarà –
complice proprio McLaren – un vero e proprio punto di rottura. Il punk
catalizza il desiderio di rivolta contro i benpensanti e le istituzioni. Le
T-shirt stracciate e bruciate, le borchie, le spille da balia, ‘immagine
cancellata della Regina Elisabetta, la scritta “Sex” esprimono quei sentimenti
che si vorrebbero indossare, esponendoli all’esterno, come un badge di appartenenza.
I simboli del punk e di tutte le sottoculture, insieme con gli elementi delle
divise dei gruppi dello stile innaturale (definizione di Dick Hebdige, uno dei
principali teorici delle sottoculture), hanno influenzato molti designer
contemporanei. Raf Simons, il più saccheggiato dai designer delle ultime
generazioni, è uno di quelli che ha saputo usarli in un modo sincero, che
tutt’ora risuona di quel desiderio di cambiare il mondo, di quella insofferenza
a regole e divieti, di quella struggente malinconia di cui sono impastate la
gesta dei ribelli senza tempo.
Recentemente Lotta Volkova (uber-stylist di Demma Gvasalia, e di conseguenza di
Balenciaga, e poi dell’estetica new post sovietica di Gosha Rubchinskiy), una
delle più interessanti protagoniste della moda contemporanea, ha così
sintetizzato: “Non ci sono più le sottoculture, almeno non nel mondo
occidentale. E’ più una questione di remix delle informazioni. I giovani
pensano diversamente, non sanno nemmeno cosa sia una sottocultura. Non è rilevante
per loro. Se vogliono mettere una maglietta punk, questo non implica che
ascoltino musica punk e che abbiano una posizione politica. La mia generazione
quando era grunge, era grunge. Era un’attitudine mentale”. Oggi i materiali
delle sottoculture risultano così disponibili, probabilmente anche grazie
all’attitudine vintage di cui siamo impregnati, da diventare utilizzabili in
quanto semplici segni, “devitalizzati” a causa della separazione dai
significati ideologici che ne giustificavano la comparsa in un momento preciso
della storia. I segni delle controculture, attraverso le citazioni che ne fanno
i diversi designer, diventano forme vuote: il senso cede il posto allo stile,
con l’affermazione di un eclettismo che si riassume nel leggere solo i titoli e
nel considerare le forme come meri segni accessori. In una sorta di
devitalizzazione antiquaria della storia. E la merce che produce è lo stile,
inteso come insieme di segni di riconoscimento visivi declinabili all’infinito.
Questa è la questione: i loro significati sono certamente modificati dall’uso
sociale ma soprattutto perdono ogni valenza di trasgressione. Sono elementi
decorativi svuotati di ogni valore. Così ci rendiamo conto che populismo e
antipolitica non sono riusciti a creare nuovi “geroglifici sociali” e le
proteste dell’oggi sono solo questione di styling. Ricordiamoci però che per
cambiare il mondo molto spesso bisogna anche cambiarsi d’abito.
Maria Luisa Frisa – Opinioni – Donna di Repubblica – 18
febbraio 2017
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