Etichette

sabato 25 febbraio 2017

Lo Sapevate Che: Vestirsi punk senza capirne la carica trasgressiva...



L’Anno Scorso sono stati celebrati i quarant’anni del Punk. A Londra incontri, mostre, eventi ne hanno ripercorso la storia, riportando a galla tutte quelle straordinarie immagini definite dalla sgranatura di un bianco/nero cattivo che ha cambiato la musica, la moda e l’attitudine di moltissimi di noi. Sicuramente il punk, con tutta la sua ribellione autodistruttiva, romanticamente fine a sé stessa, con tutti quegli elementi che hanno definito uno stile come “gesso contro”, è il movimento che, pur nella sua brevissima vita (1974-1976), ha lasciato il segno più profondo. “La vita ordinaria è così monotona che ne esco il più possibile”, sosteneva in Melody Maker Steve Jones, uno sei Sex Pistols. La controcultura diventa quindi stile, prima che musica. Sono Vivienne Westwood e il musicista Malcolm Mclaren, figlio di un sarto, allora manager e anima teorica della band Sex Pistols, ad aprire quel primo negozio a Londra (nel 1971) che pone le basi per la nascita del punk. Nato come Let ItRock, poi diventato Sexe Seditionaries, sarà – complice proprio McLaren – un vero e proprio punto di rottura. Il punk catalizza il desiderio di rivolta contro i benpensanti e le istituzioni. Le T-shirt stracciate e bruciate, le borchie, le spille da balia, ‘immagine cancellata della Regina Elisabetta, la scritta “Sex” esprimono quei sentimenti che si vorrebbero indossare, esponendoli all’esterno, come un badge di appartenenza. I simboli del punk e di tutte le sottoculture, insieme con gli elementi delle divise dei gruppi dello stile innaturale (definizione di Dick Hebdige, uno dei principali teorici delle sottoculture), hanno influenzato molti designer contemporanei. Raf Simons, il più saccheggiato dai designer delle ultime generazioni, è uno di quelli che ha saputo usarli in un modo sincero, che tutt’ora risuona di quel desiderio di cambiare il mondo, di quella insofferenza a regole e divieti, di quella struggente malinconia di cui sono impastate la gesta dei ribelli  senza tempo. Recentemente Lotta Volkova (uber-stylist di Demma Gvasalia, e di conseguenza di Balenciaga, e poi dell’estetica new post sovietica di Gosha Rubchinskiy), una delle più interessanti protagoniste della moda contemporanea, ha così sintetizzato: “Non ci sono più le sottoculture, almeno non nel mondo occidentale. E’ più una questione di remix delle informazioni. I giovani pensano diversamente, non sanno nemmeno cosa sia una sottocultura. Non è rilevante per loro. Se vogliono mettere una maglietta punk, questo non implica che ascoltino musica punk e che abbiano una posizione politica. La mia generazione quando era grunge, era grunge. Era un’attitudine mentale”. Oggi i materiali delle sottoculture risultano così disponibili, probabilmente anche grazie all’attitudine vintage di cui siamo impregnati, da diventare utilizzabili in quanto semplici segni, “devitalizzati” a causa della separazione dai significati ideologici che ne giustificavano la comparsa in un momento preciso della storia. I segni delle controculture, attraverso le citazioni che ne fanno i diversi designer, diventano forme vuote: il senso cede il posto allo stile, con l’affermazione di un eclettismo che si riassume nel leggere solo i titoli e nel considerare le forme come meri segni accessori. In una sorta di devitalizzazione antiquaria della storia. E la merce che produce è lo stile, inteso come insieme di segni di riconoscimento visivi declinabili all’infinito. Questa è la questione: i loro significati sono certamente modificati dall’uso sociale ma soprattutto perdono ogni valenza di trasgressione. Sono elementi decorativi svuotati di ogni valore. Così ci rendiamo conto che populismo e antipolitica non sono riusciti a creare nuovi “geroglifici sociali” e le proteste dell’oggi sono solo questione di styling. Ricordiamoci però che per cambiare il mondo molto spesso bisogna anche cambiarsi d’abito.
Maria Luisa Frisa – Opinioni – Donna di Repubblica – 18 febbraio 2017

Nessun commento:

Posta un commento