Partiamo da una citazione talmente celebre che
finisce per essere sottovalutata, fino a quando – a forza di provarla sulla
nostra pelle – si dimostra l’archetipo dell’essere italiano. Nel Principe,
Nicolò Machiavelli scrive che il successo di un regnante – si direbbe oggi di
un leader – dipende per metà dalla fortuna e per metà della virtù. Significa
che non c’è al comando mai la pura casualità, né la pura follia, né la pura
capacità. Quel che sta succedendo al Pd è, dunque, l’epilogo di una storia.
Cominciata con una classe dirigente inadeguata, simboleggiata dalla figuraccia
di Pier Luigi Bersani alle politiche del 2013. E terminata con una classe
dirigente altrettanto inadeguata. Simboleggiata da un Matteo Renzi
irriconoscibile. (..). Perché il Partito democratico non perde elettori o
dirigenti, cosa che capita in politica, ma perde peso e credibilità agli occhi
di tutta la parte laica e progressista del Paese. Si scioglie nell’anima, non
nella struttura. Poco importano le beghe fra correnti e la frattura, prima personale
e solo poi politica, che si sta rapidamente consumando in queste ore, di fronte
a ciò che resta: “Il fu Partito democratico”. Da quel 2007 a oggi sono passati
dieci anni. E ora sappiamo che, comunque vada, ciò che uscirà dal congresso non
è più ciò che ci era entrato: il Pd come l’avevamo conosciuto. Sulla Crisi
dei democratici è stato scritto e detto di tutto. Politologi, militanti,
blogger, editorialisti e mezzi busti da talk show. Eppure c’è qualcosa di
atavico, qualcosa di interiore di cui ti vergogni, c’è un riflesso automatico
che cerchi di occultare e che invece si manifesta più nitido di tutto. Quando,
fra dieci anni, lontani dai riflettori e dalle polemiche della cronaca, fuori
dai tatticismi e dalle giravolte politiche, analizzeremo questo momento
storico, dove sta cambiando “l’uomo” e il suo modo di stare al mondo, ci
chiederemo di cosa stava discutendo la sinistra italiana? Di cosa, mentre
milioni di donne e uomini urlavano la propria rabbia e il proprio no al modo in
cui abbiamo concepito la politica dalla caduta di Hitler e Mussolini in poi? Di
cosa lor signori mentre un miliardario saliva sull’Air Force One con il
plebiscito della classe più povera d’America? E di cosa mentre nel cuore
dell’Europa democratica risorgevano gli spettri del nazionalismo e della
xenofobia? Di mozioni, tessere, conferenze programmatiche, regole, documenti
fotocopia e ancora mozioni. Di nulla. La Parola D’Ordine che nel 2007 aprì al sogno di una
sinistra maggioritaria nel segno del Pd era “fusione”. A freddo magari. Tenuta
insieme con lo scotch dell’antiberlusconismo, se vogliamo. Ma adesso la parola
più pronunciata a sinistra è diventata “scissione”. Non è un caso. È
un’inversione di polarità, un ribaltamento del processo culturale che ha
tentato di archiviare le vecchie ideologie e di traghettare il cattolicesimo
sociale e l’ex comunismo, pentito, nel socialismo europeo. E invece niente.
Renzi sì, Renzi no, prigionieri di un referendum interiore che condanna la
sinistra a perdere per i prossimi anni le elezioni. A vantaggio, deciderà il
Paese, di un grillismo che – nemesi vuole – nasceva proprio nello stesso anno
del Pd, nel 2007, con un grido “Vaffa” che si sta mutando in desiderio di
governo. Dentro un processo, pur incidentato, di parlamentarizzazione che va nella
direzione opposta ai democratici di nome, ma non di fatto. Oppure alla destra
neo-berlusconista, guidata del Cavaliere quel modello di “italiano medio” che
Berlusconi, piaccia o no, ha saputo decifrare meglio del campo avverso. Diverte che in
questa Chernobyl politico ci si diletti con le virgole e gli apostrofi. Diverte
che la domanda sia: quanto durerà il governo? Come se un brutto film fosse più
o meno brutto perché dura un quarto d’ora in meno o venti minuti in più.
<nello spettatore elettore, ciò che lascerà sarà il medesimo senso di
estraneità, di fastidio, di lontananza. E alla domanda: quanto è durato? La
risposta sarà: che me ne importa. Ma la sinistra no. Lei sa come si fa. Sa
ripetere il mantra dei tempi nuovi, quello che dice “dobbiamo ritrovare la
fiducia dei nostri elettori, dobbiamo parlare a quella gente che ci ha voltato
le spalle”. Retorica. E pure di bassa lega. La verità è che l’Italia,
soprattutto la sinistra italiana, vive un eterno 8 settembre. Abbiamo dentro
l’archetipo che demolisce ogni progetto includente. Non possediamo l’anticorpo
del governo. Quello che consiste di distinguere fra un’idealità che deve volare
sempre più alta e la responsabilità del compromesso, tale solo in virtù di un
fine, chiudendo sulla citazione machiavellica: materializzare (almeno in parte)
le promesse fatte.
Tormentone di vita quotidiana e tante ricette culinarie italiane ed estere
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