“L’Inverno Successivo, della ferita non rimaneva che una
piccola cicatrice appena visibile. Ironia della sorte, quella fu l’estate in
cui Hassan smise di sorridere”. E’ una citazione da Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini. Anche nel romanzo di
Agots kridtof Trilogia della Città di K. c’è un personaggio
chiamato Labbro Leporino, una ragazza che fa un’orribile fine anche a causa
della sua malformazione. Ho letto questi romanzi nell’estate del 2008, avevo da
poco realizzato campagne pubblicitarie per prodotti di cosmesi, lavorato con
modelle bellissime. Avevo guadagnato abbastanza da potermi permettere di
lavorare gratis, così ho chiesto a Operation Smile di seguire una missione medica
a mie spese. Sono partita come volontaria”. Chi parla fin qui, e anche in
seguito, è Margherita Mirabella. Giovane fotografa italiana trapiantata a New
York, spesso in viaggio nelle zone più povere dell’Africa. La sua storia voglio
raccontarla dando a lei la parola. (..). Tanto più nel caso di Margherita: la
malformazione del labbro leporino che colpisce tanti bambini alla nascita è
così brutta che pochi magazine oserebbero ospitare le sue fotografie. In
Occidente il costo dell’operazione è alla portata di tutti, nei paesi poveri
può diventare una condanna all’infelicità. Il caso di Margherita è anche un
esempio per tanti giovani: il mestiere del fotoreporter è più vivo che mai. Ma
non voglio rubarle altro spazio, le restituisco la parola: “ricordo”, mi scrive
Mirabella di ritorno da una delle sue missioni, “la sensazione di smarrimento
il giorno dello screening: centinaia di persone, bambini, adolescenti e adulti
attendevano di essere visitati e speravano nell’intervento. Non avevo mai visto
una cosa del genere, ma non ho, né allora né mai, provato repulsione o fastidio
per le malformazioni facciali. Per molti sono insostenibili, io vedevo e vedo
la bellezza oltre il difetto. I pazienti lo sentono e si lasciano fotografare
da me perché si fidano, e soprattutto si fidano di Operation Smile. Dal 2008 a
oggi credo di avere partecipato a una ventina di missioni in Africa, Asia,
Medio Oriente. Ho la fortuna di poter tornare a distanza di mesi o anni egli
stessi siti e di ritrovare alcuni dei pazienti per raccontare come e quanto
l’intervento abbia cambiato le loro vite. Molte delle persone che incontriamo
non hanno mai visto un ospedale o una sala operatoria, in alcuni paesi non c’è
accesso a cure mediche, non ci sono chirurghi plastici. Operation Smile si focalizza
anche sull’insegnamento, così che un giorno non sia più necessario tornare in
un determinato paese; cerca insomma di rendere indipendenti i medici e gli
ospedali locali. Un bambino di pochi mesi non sa di essere diverso dagli altri,
non ha ancora vissuto il rifiuto, lo scherno, la cattiveria, la superstizione,
non è stato recluso. Diversa la storia per i bambini più grandi, per gli
adolescenti e gli adulti: mi sorprende sempre vedere come cambia il loro
sguardo dopo l’intervento. Non si sentiranno più diversi, mostruosi, respinti e
insultati, torneranno a scuola e a una normale vita sociale. Non andiamo in
zone di guerra o pericolose, non necessariamente salviamo vite, ma le cambiamo,
questo è ceto. Io non ho figli, non so cosa si provi a essere madre, ma ne ho
conosciute centinaia e le ho seguite e raccontate mentre affrontavano
l’intervento chirurgico dei loro bambini, dalla speranza all’ansia fino a quel
momento di gioia pura nel riabbracciare la loro creatura nella Recovery Room,
il primo sguardo che si posa sul volto nuovo”.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di Repubblica – 11
febbraio 2017
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