Solo qualche decina di anni fa le
valli tra le montagne della Mongolia erano piene d’erba. Oggi i pascoli
scarseggiano e non sono più verdi come una volta. La causa del problema che
preoccupa i pastori è il motivo stesso della loro esistenza, il bestiame.
Secondo i dati della Fao, nel 2915 la Mongolia ha raggiunto la cifra record di
quasi 56 milioni di capi d’allevamento, troppi per uno sfruttamento sostenibile
dei pascoli: secondo alcuni studi, la soglia dei capi da non oltrepassare è
quaranta milioni. A provocare questa crescita vertiginosa nonostante
soprattutto le capre domestiche (Capra
hircus), che rappresentano il 42 per cento del bestiame mongolo e il cui
numero è più che raddoppiato negli ultimi quindici anni. Alla base del successo
di questi animali non ci sono né la loro carne né i loro latte, ma la peluria
del sottomantello, chiamata duvet, che d’inverno li protegge dal freddo. Da questo sottopelo, che nelle razze mongole
è eccezionalmente morbido e folto a causa degli inverni rigidi, si ottiene il
pregiato cashmere, un prodotto che muove ogni anno miliardi di dollari nel mondo.
La Mongolia infatti è il secondo produttore del Pianeta (nel 2015 ha raggiunto
le settemila tonnellate) e, assieme alla Cina, garantisce il 90 per cento della
fornitura globale. “Non c’è dubbio che il mercato del cashmere sia la causa
principale dell’aumento di numero delle capre in Mongolia” dice Maria E.
Fernandez-Gimenez, ricercatrice alla Colorado State University, di recente
decorata dal governo mongolo con l’Ordine della Stella Polare per il suo
impegno nella salvaguardia dell’ambiente e delle tradizioni locali. “Per i
pastori il cashmere si è rivelato molto più redditizio della carne, ecco perché
le capre aumentano. In secondo luogo questi animali si riproducono più in
fretta di altri più grandi, come buoi, cavalli o cammelli”. E, sebbene non
esistano ancora studi specifici, le capre hanno tutte le caratteristiche per rappresentare
un flagello per i pascoli: con gli zoccoli taglienti danneggiano il suolo più
degli altri erbivori e, visto che strappano l’erba dalle radici, ne rendono più
difficile la ricrescita in tempi brevi. La preoccupazione è che alla lunga la
troppa pressione degli erbivori contribuisca a distruggere uno tra i più grandi
ecosistemi di praterie del mondo. L’altro grande motivo di preoccupazione per
la steppa della Mongolia è il suo cambiamento climatico. L’Unep (l’agenzia
ambientale dell’Onu) ha dichiarato che in Mongolia le temperature medie annuali
sono aumentate di 2,1°C negli ultimi settant’anni e che il 90 per cento del
territorio è a rischio desertificazione: “Gran parte delle praterie si trova
oggi in uno stato di degrado rispetto alle condizioni originali” dice
Fernandez- Giménez. “Solo una piccola porzione, circa il 7 per cento, è
considerata però irrimediabilmente compromessa. La fortuna dell’ecosistema
mongolo è la sua resilienza, la capacità di recupero: se si riduce la pressione
degli erbivori, la vegetazione può riprendere spontaneamente in soli tre-cinque
anni. Ma se non ci sarà un drastico cambiamento nella gestione delle terre le
trasformazioni ecologiche potrebbero diventare irreversibili. Pastori e
autorità locali stanno così lavorando, con l’ausilio degli scienziati, per
cercare soluzioni ed evitare ricadute economiche (il cashmere rappresenta il 40
per cento delle esportazioni non minerarie della Mongolia). Tra le proposte c’è
quella di limitare le aree da pascolo, ridurre gli allevamenti e sostituire le
capre con animali come yak e cammelli, da cui è possibile ottenere fibre
tessili altrettanto pregiate. “Le organizzazioni” dice Fernandez – Giménez “ma,
non illudiamoci, per un miglioramento dell’ecosistema servirà molto tempo.
Martina Saporiti – Animali – Il Venerdì di Repubblica – 10
febbraio 2017 -
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