Le rivoluzioni scientifiche in genere
si affermano in modo tumultuoso, basti pensare a Galilei o Darwin.
L’altrettanto rivoluzionaria genetica, invece, nacque nell’indifferenza e il
suo fondatore rischiò di finire dimenticato. Si chiamava Gregor Mendel ed era
nato nel 1822 in un villaggio della Moravia (oggi nella Repubblica Ceca) da una
famiglia tanto umile che lui si fece monaco purché la Chiesa gli pagasse gli
studi all’Università di Vienna. “Studiando insieme agronomia, matematica e
statistica diventò uno dei pochi al mondo in grado di comprendere le regole
dell’apparentemente caotica trasmissione dei caratteri ereditari fra
generazioni” racconta Telmo Pievani, docente di Filosofia di Padova e curatore
della mostra Dna. Il grande libro della
vita da Mendel alla genomica, che aprirà al Palazzo delle Esposizioni di
Roma il 10 febbraio, per festeggiare i 150 anni delle leggi dell’ereditarietà.
In sette sezioni, oggetti appartenuti a Mendel, la prima immagine ai raggi X
del Dna o il vello della pecora clonata Dolly offrono un quadro completo della
storia della genetica: da scienza che cerca di leggere il “libro della vita” a
tecnica in grado di riscriverlo. Ma tutto, appunto, è iniziato con Mendel,
“Dovendo lavorare al miglioramento di specie coltivate, scelse i piselli, i cui
incroci sono facili da controllare, arrivando a capire che certi caratteri,
come il colore dei semi si ripetevano in varianti diverse, in proporzioni
sempre uguali. Incrociando piselli gialli e verdi, per esempio, non si
ottenevano piselli gialloverdi, ma sempre o gialli o verdi: era la scoperta di
ciò che lui definì “unità particellari” e noi chiamiamo geni. Comprese poi che
ogni genitore conferisce alla prole una variante di ogni gene, e che alcune di
queste sono dominanti: per esempio piselli verdi puri incrociati con gialli
puri, davano sempre piselli gialli. Ma le varianti “deboli”, le recessive, non
sparivano, restavano negli ibridi, ricomparendo in circa un quarto dei casi,
quando si univano due geni recessivi”. Erano le leggi dell’ereditarietà, che
Mendel pubblicò su una rivista di agronomia nel 1867. “Lo studio passò
inosservato, ma lui ne aveva capito l’importanza, e ne spedì copia a quaranta
scienziati in tutta Europa. Nessuno gli rispose. Mendel provò allora a
dimostrare l’universalità delle sue leggi, sperimentando con altre piante, ma
le specie scelte non erano facili da controllare come i piselli, e i risultati
furono confusi. Scoraggiato abbandonò la
scienza, ma pare che prima di morire, nel 1884, abbia detto “Verrà un giorno in
cui capiranno…”. Era decisamente in anticipo sui tempi.” Quando nell’anno 1900
tre scienziati riscoprirono le sue leggi, tutti e tre ammisero che il monaco
era arrivato prima”. Ma oggi Mendel stenterebbe a riconoscere la sua scienza.
Ormai siamo in grado di leggere il Dna e, da qualche anno, con la tecnica
Crispr abbiamo anche uno strumento semplice ed economico per “riscriverlo”.
Possiamo modificare gli esseri viventi, uomo compreso, e persino crearne di
artificiali. E non è impossibile che nei prossimi anni la genetica ci metta di
fronte a scelte eticamente delicate, come prolungare la vita o creare embrioni
umani “migliorati”, in grado di cambiare le nostre società e l’idea stessa di
uomo”
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 3
Febbraio 2017 -
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