Ho vent’anni, studio
Commercio Estero a Venezia, e come tutte le sere scrivo. Ma sono settimane che
sono ferma al primo paragrafo di un articolo su Aleppo. Ricordiamo l’Olocausto
in un giorno di gennaio, per poi dimenticarcene nei restanti 364 giorni.
Posiamo la forchetta sul piatto per quel servizio al telegiornale, quelle
immagini aberranti, le fissiamo, sospiriamo, per poi riprendere a cenare. A
cosa servono, davvero, le parole? Vedo una parte del globo, uomini che non
possono più pensare né amare, né sperare, ma soltanto tremare, tremare
incessantemente. Vedo l’altro lato, assuefatto alla sofferenza dell’altro,
immobile. Ascolto la banalità superflua dei notiziari che finisce col trasformare
tutti noi che parliamo e ascoltiamo in complici. Eppure non smetto di credere
in quelle Nazioni Unite che, alla fine della Guerra fredda, hanno lavorato
senza l’ostruzionismo della rivalità tra le grandi potenze, e che sono oggi
teatro della nostra impotenza collettiva. Scrivo perché mi rende consapevole.
E, a vent’anni, bisognerebbe aver fame di consapevolezza. Ludovica Castelli castelliludovica@gmail.com
Nel mondo c’è più atrocità che amore. Perché
un maledetto “istinto di conservazione”, portato all’esasperazione ci fa dire:
“Mors tua, vita mea”. Come se la propria vita potesse affermarsi alla sola
condizione, se non di sopprimere, comunque di limitare la vita degli altri. Nonostante
non manchi giorno in cui rivendichiamo la nostra differenza e superiorità
rispetto agli animali, siamo esattamente come loro, anzi peggio di loro. Gli
animali infatti uccidono per alimentari, gli uomini invece, come ci ricorda
Hegel, uccidono per ottenere il riconoscimento della loro superiorità nei
confronti del vinto. Non uccidiamo per fame, ma per potere, perché il potere
potenzia la nostra identità e il nostro vissuto di superiorità. Come osservava opportunamente Nietzsche, la
storia umana è regolata dalla volontà di potenza che si esprime tanto in guerra
quanto in pace, perché anche la pace, ce lo ricorda Heidegger, non è che un
altro modo di proseguire la guerra, che a sua volta: “E’ una sottospecie della
conquista della terra in vista del suo sfruttamento spinto fino alla sua usura
che viene continuata nel tempo di pace Questa lunga guerra, nella sua
lunghezza, non va lentamente verso una pace di tipo tradizionale, ma verso una
situazione in cui i caratteri costitutivi della guerra non sono più esperiti
come tali, e ciò che costituisce la pace ha perso ogni senso e ogni contenuto”.
A questa situazione generale che dice quanto è arretrata la condizione umana
rispetto ai suoi ideali di pace e di reciproco rispetto e riconoscimento – propagati in Occidente dalla religione
Cristiana e dalla cultura illuminata, che ha declinato inversione laica i
valori di libertà, uguaglianza e fraternità a suo tempo annunciati dal
cristianesimo delle origini – a questa situazione di spaventosa arretratezza,
si aggiunge un’ulteriore impressionante arretratezza della nostra condizione
psichico, dovuta al fatto che il “troppo grande” ci lascia “freddi”, perché il
nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. Se
muore infatti un congiunto a cui eravamo legati, soffriamo, se muore il nostro
vicino di casa facciamo le condoglianze, se ci dicono che ogni otto secondi
muore di fame un bambino nel mondo, questa finisce con l’essere solo una
statistica che si stenta ad approfondire per non toccare con mano la nostra
impotenza di fronte a una simile situazione. Lo stesso accade con la reazione
emotiva che proviamo di fronte ai nostri morti di terrorismo, e a quelli delle
terre di Siria e d’Iraq, troppo lontani e grandi per commuoverci e suscitare un
minimo di partecipazione, Ma come scrive Gunther Anders: “L’inadeguatezza del
nostro sentire non è un difetto fra i tanti, è la peggiore delle peggiori cose
che sono già accadute. Perché è questo fallimento che rende possibile la
ripetizione di queste terribilissime cose. Infatti se il nostro meccanismo dii
inibizione si arresta non appena si sia superato una certa grandezza massima,
allora, finché vige questa regola infernale, il mostruoso ha la via libera”.
Capiamo adesso l’importanza dell’invito di Ludovica, di educare nei giovani la
consapevolezza e il sentimento, affinché non siano indifferenti al proliferare
delle armi, alla distruzione del sistema E tutto ciò affinché la loro
insensibilità non aumenti e non si traduca in irresponsabilità collettiva, che
consentirebbe alla distruttività umana di dilagare indisturbata, senza neppure
più bisogno di appoggiarsi come un tempo a tramontane ideologiche.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 4 febbraio
2017 -
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