Guardando Le Immagini di Rigopiano, e del dramma
dell’Abruzzo, così come prima di Amatrice, mi domandavo perché proprio quando
l’Italia si sente popolo, unita nel dramma della morte, nella gioia di chi è
salvo, nell’inquietudine della terra che continua a tremare senza che tu possa
fare nulla, si parla invece di “popolazioni”. Le popolazioni colpite si dice.
Quasi a prendere le distanze. Non è soltanto una leziosità linguistica, è la
maniacale esigenza che abbiamo noi occidentali di classificare ogni cosa,
giusto e sbagliato, vincitori e vinti, come se conoscere l’entomologia ti
mettesse al riparo dalla puntura degli insetti. Che C’entra Questo con Trump e la globalizzazione?
C’entra. È per questo stesso meccanismo interiore che il piccolo mondo di
porcellana che abbiamo disegnato in copertina, frantumato da un colpo di
martello, un martello che simboleggia la “T” di Trump, ci spaventa così tanto.
Non perché sappiamo cosa succederà, ma perché non siamo in grado di
classificarlo. Sappiamo che quei cocci disordinati-comunque vada – non
torneranno più nella loro posizione originale. E ci rifiutiamo di guardare.
Cerchiamo giustificazioni. Capri espiatori. A qualcosa che se ha un
responsabile, quel responsabile è proprio l’occidente. La sua incrollabile
sicumera. Così abbiamo provato a disegnare davvero il mondo nuovo, spostando
stati e continenti dalla loro geografia naturale, seguendo la deriva che ha
portato prima alla Brexit, poi al trionfo delle destre, fino alla vittoria del
magnate americano, per provare a farli corrispondere alla nuova collocazione
politica. L’effetto che si crea è straniante: ci troviamo materialmente di
fronte a un pianeta che non abbiamo mai visto. Eppure è quello di prima. Se fai
lo stesso gioco con le parole, provi cioè a riscrivere il dizionario dell’era
post-Trump, ti rendi conto che le frasi che abbiamo pronunciato mille volte,
pur restando le stesse, mutano di significato. Ma ciò che più colpisce, come
racconta con penna cruda e provocatoria il filosofo francese Michel Onfray nel
suo j’accuse contro la politica e le sue colpe, è che la parola che davvero ha
cambiato natura, ambizioni, aspirazioni è quella su cui tutto ebbe inizio:
democrazia, il “governo del popolo” che diventa il “governo nonostante il
popolo”. Problema che destruttura innanzitutto la sinistra. È la stessa
sensazione che proviamo anche in Europa. L’idea che ciò che abbiamo costruito
nei decenni sia diventato fragile, instabile, sia destinato a mutare, a rivoltarsi
contro i suoi ideatori. E invece che guardarlo bene in faccia, ci viene la
naturale tentazione di rinviare quel momento, di scongiurarlo, di classificarlo
come “estraneo” alla vita democratica. Ecco perché il momento è cruciale anche
in Italia. Dove Ilvo Diamanti ci dice che otto cittadini su dieci vogliono
l’uomo forte, ma dove al tempo stesso la prassi democratica ci allontana dal
voto. All’apparenza un bene, soprattutto per chi come il Pd è in crisi profonda
non tanto di voti quanto di anima, visione, futuro. Ma alla lunga diventerà un
rischio enorme. Quello di sottovalutare ancora una volta ciò che succede là
fuori, concentrati come siamo sulle virgole della sentenza della Consulta, sui
dettagli di una legge elettorale che sarà scritta per i partiti e non per i
cittadini, e che ci mostrerà di nuovo come troppo sesso nelle tecnicità in cui
si articola la prassi democratica la parola popolo è diventata un estraneo. Al Contrario è
in “nome del popolo” che ogni dispositivo al servizio della democrazia (la
legge elettorale in primis) dovrebbe funzionare. La mediazione fa già di per sé
perdere all’idea di “sovranità popolare”, di rappresentanza e
rappresentatività, dei pezzi, ogni volta che la volontà retorica deve essere
“attuata” attraverso le elezioni. Ma se stavolta non sapremo spiegare molto
bene ciò che stiamo facendo, rischiamo che il popolo abbia di nuovo
l’impressione che la sua voce venga filtrata, interpretata, tradita attraverso
la procedura. Generando una reazione contraria. Quella che, a volte
travisandone il senso, molti chiamano “populismo” e pretendono che muoia da
solo. Come se un medico, fatta la diagnosi, stesse fermo a guardare il
paziente. Citando i libroni della medicina.
Tormentone di vita quotidiana e tante ricette culinarie italiane ed estere
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