E’ preoccupante che
sempre più spesso si cerchi sollievo e conforto nella diagnosi di un “disturbo
psicologico”, sottovalutando la profondità della psiche
Seguo saltuariamente la sua rubrica e conservo piegato nel
portafogli un suo articolo che riguarda l’idealizzazione dell’amore. Ma, dopo
aver letto nella stessa rubrica Narcisisti senza speranza?, la riflessione è
stata immediata e mi ha accompagnata per tutta la giornata. Non sono un’addetta
ai lavori, nella vita faccio l’infermiera, e constato che tutti usiamo il
giudizio, le categorie e i modelli. L’importante però è limitare il loro potere
inferenziale, pena l’oggettivazione e l’alienazione dell’altro. Ho avuto delle
esperienze con i “professionisti psico”. Il primo ha detto che l’autoanalisi
compiuta non faceva una piega e che dovevo solo aspettare il corso degli
eventi, la seconda cerca di interpretarmi secondo i suoi modelli di
riferimento. In entrambi i casi ho capito che dovevo tentare di sbrigarmela da
sola. In fondo ognuno di noi è unico e le impronte digitali ne sono il segno
evidente.
E allora perché non vivere con un po’ di leggerezza e ironia,
invece di ostinarsi a riferire la nostra vita a categorie (amore, narcisismo,
amicizia…), giudizi (i narcisisti non sanno amare), modelli (approccio
sistemico, bioniano, cognitivista…)? Certo, è fondamentale avere coscienza di
sé, poi quello che possiamo farne è parte dei segreti della vita, che per
fortuna ha un buon margine di imprevedibilità e dispiega tante piccole magie
che troppo spesso non vediamo, impegnati come siamo a confrontarsi sul “come la
vita dovrebbe essere”, come “dovrebbero essere” l’amicizia, l’amore, la
famiglia. Seneca ci insegna che se sappiamo utilizzare con pienezza di
coscienza il tempo che ci è dato, esso ci sembrerà congruo.
I.D.
Leggo la sua lettera non come una critica alla psicoterapia e
ai vari modelli che la configurano, ma come un avvertimento a chi vi ricorre,
spesso con l’atteggiamento dei pazienti verso i medici che, come è noto, è
generalmente un atteggiamento di passività. Un “faccia lei”, dopo avergli
accordato la fiducia.
Quando si ha a che fare con i problemi dell’anima, e qui potremmo dire più in generale della vita, non possiamo atteggiarci come quando siamo ammalati nel corpo, perché è oggettivabile, e soprattutto è diversa da individuo a individuo. La psicoterapia non è un percorso che conduce dalla “malattia” alla “guarigione”, ma un luogo di incontro che, quando funziona, conduce a una migliore conoscenza di sé. E non c’è dubbio che conoscersi è meglio che vivere a propria insaputa, regolati da meccanismi automatici che ci governano al di là della nostra consapevolezza. Stante questa abissale differenza tra la cura dell’anima, male ha fatto il legislatore, sfruttando il termine “terapia”, ad appiattire la psicoterapia sul modello medico, escludendo per esempio, i filosofi, quando invece, come vuole la sua citazione, le riflessioni di Seneca e di tanti altri filosofi potrebbero essere più utili all’anima dei modelli teorici a cui si ispirano le varie scuole di psicoterapia.
Ma nella sua lettera leggo anche un invito a tollerare il
dolore, le sofferenze, i lutti, le prove che fanno parte della vita, e a non
misurarsi solo a partire, per cui le relazioni, le amicizie, gli amori non sono
mai come dovrebbero essere o come li abbiamo sognati. Qui l’errore sta nella
mancanza della misura, che induce a cercare la felicità nel sogno invece che
nella vita, da affrontare, come lei dice, con un minimo di autoironia.
E infine, siamo davvero così vulnerabili da aver bisogno di
un’assistenza psicologica di fronte alle incertezze della vita? Davvero basta
che un bambino sia un po’ vivace per essere etichettato come “affetto da un
disturbo di attenzione con iperattività”, o che una donna in procinto di
partorire sia avvertita della possibilità di una “depressione post partum”,
iscrivendo così un fenomeno naturale come la generazione in un quadro ai
confini con la patologia? Cosa nasconde questa patologizzazione dell’esistenza
che ci persuade di avere un sé fragile e perciò bisognoso di protezione, di
tutela e al limite di cura?
Forse non ha tutti i torti il sociologo Frank Furedi, là dove
scrive in Il nuovo conformismo (Feltrinelli): “L’imperativo
terapeutico che si va diffondendo promuove non tanto l’autorealizzazione,
quanto l’autolimitazione, che insegna a stare al proprio posto, offrendo in
cambio i dubbi benefici della conferma e del riconoscimento”.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica - 7 giugno 2014 -
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