Un filosofo spiega come
il vecchio ethos militare sia stato congedato in favore di cacce mirate
Ma se, come affermava Hegel, “le armi non sono altro che
l’essenza dei combattenti”, come la mettiamo con i droni? Scordatevi Achille,
Aiace, Patroclo; spazzati via a colpi di teleguida da quelli che nel gergo
dell’esercito americano vengono classificati come “veicoli aerei di
combattimento senza equipaggio”. Finita per sempre la stagione dell’ethos
militare fondato sull’eroismo (e sul coinvolgimento diretto nella pugna),
archiviato il modello classico di Von Clausewitz, che assimilava la guerra a un
duello, i droni impongono il paradigma della “caccia”. Alla bade c’è la
dottrina del Network-Centric Warfare:
niente più comando, controllo e catena gerarchica, l’individuo nemico
rappresenta il nodo di una rete da distruggere disarticolandola nei punti
chiave.
La genealogia culturale dei Predator e dei Reaper
viene raccontata dal filosofo Grégoire Chamayou nella sua Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere ( Derive Approdi,
pp.222,euro17), che parte dagli studi del 1964 dell’ingegner Johm W.Clark sulle
“macchine telechiriche” (ossia telecomandate a distanza) per arrivare ai giorni
nostri.
Nel 2001, il superfalco Donald Rumsfeld, segretario alla
Difesa, ispirandosi al programma israeliano di “omicidi mirati”, chiese al suo
stato maggiore una riformulazione della strategia. Ci furono perplessità di
alti ufficiali, contrari per le implicazioni giuridiche ed etiche. A supporto
della nuova teoria si schierò il filone del “militarismo democratico”,
invocando motivazioni che vanno dall’idea di una guerra senza vittime alla
logica del “male minore” fino alla giustificazione del drone quale “arma
umanitaria”. Il binomio foucaultiano “sorvegliare e punire” è diventato, da
quel momento, sorvegliare e annientare (una volta per tutte).
Massimiano Panarari – Venerdì del 30 maggio 2014 –
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