Quella…banalità della
paura
Viviamo una realtà che
non riconosciamo, che rende infelici tutti.
Infelici perché abbiamo
cominciato a pensare che la felicità si trovi lontano da noi.
Fuori dalle nostre
città. E fuori dall’Italia.
Le considerazioni che il Primo presidente della Cassazione
Giorgio Santacroce ha fatto sullo stato delle carceri, durante il recente
discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, sono fondamentali e mi
hanno fatto riflettere.
Le crisi economiche sono pericolose. Questa crisi economica è
pericolosa.
Il Processo E’ Lento, ma anno dopo anno, mattone su
mattone, ci troviamo a vivere una realtà che non riconosciamo, che rende
infelici tutti, ricchi e poveri, lavoratori e disoccupati. Uomini e donne.
Anziani, adolescenti. Infelici perché inappagati. Infelici perché abbiamo
iniziato seriamente a pensare che la felicità si trovi fuori, lontano da
noi. Fuori la porta delle nostre case,
dei nostri condomini. Dalle nostre città. Fuori dall’Italia. Altrove.
Te ne vai lontano per scoprire poi che la felicità ti è stata
tolta quando hanno iniziato a farti credere che la strada è insicura per te e i
tuoi figli. Quando hanno iniziato a farti pensare che i tossicodipendenti sono
una minaccia e quindi meglio rinchiusi che fuori. Meglio sotto chiave che con
documenti. Che liberi di lavorare, di amare, di votare, di vivere. La felicità
ci è stata sottratta quando è stato chiaro che la paura era il sentimento
giusto, quello che avrebbe garantito soggezione e quindi voti. Ecco ciò che
serve: una nazione di gente che ha paura del vicino che ti può scippare quando
vai a ritirare la pensione alle Poste. Degli immigrati che sottraggono lavoro
agli italiani. Che ha paura della crisi. Crisi che farebbe aumentare i furti
nelle case. Crisi che uccide ogni volontà, ogni energia, ogni spinta reale a
uscirne. Crisi che è un alibi per pagare meno, per non rinnovare contratti, per
licenziare.
E anche quando ti dicono che la crisi non esiste, che è
un’invenzione dei media, ti stanno mentendo. Ti mentono e nel frattempo votano
leggi razziste. Leggi che calpestano impunemente diritti civili e umani. Leggi
che riempiono di poveri cristi carceri e Cie. Leggi vergogna, di cui il nostro
Paese non riesce a liberarsi.
Ma il problema ora si è spostato da chi ci ha fatto credere
per anni che eravamo sotto minaccia, a quanti di noi si sono realmente convinti
di dover erigere barricate contro un nemico sempre diverso. E, in fin dei conti
impalpabile nella sua presunta oggettività. E anche la crisi, da dato economico
tragico, tangibile e reale si è trasformato in alibi. Nulla si può fare, nulla
si può modificare, di nulla si può discutere tranne che di crisi. Tutto, ma
dopo la crisi. Il servitore che diventa più solerte del padrone. La politica
che per anni ci ha ripetuto quanto fossimo in
vorrebbe pericolo, ora che vorrebbe smettere di farlo, si trova con un
elettorato talmente abituato ad avere paura che non riesce ad abbassare la
guardia.
Il Dato Paradossale è che nonostante si ribadisca
costantemente quanto sia fuorilegge la condizione delle carceri, quanto una
riforma della Giustizia sia necessaria, quanto siano necessari provvedimenti
che mettano fuori dalle carceri chi è in attesa di giudizio, i
tossicodipendenti che andrebbero piuttosto curati, chi potrebbe usufruire di
pene alternative, tutti questi appelli cadono nel vuoto. Perché ormai ci siamo
abituati a pensare che in carcere ci sia la feccia della società. Che le
carceri non sono alberghi a cinque stelle e che quindi stessero pure in dieci
in una cella per tre, senza riscaldamento, senza acqua calda e con servizi
igienici indecenti. Non ci sfiora che tutto questo si chiama tortura e non
carcere, né rieducazione. Non riabilitazione, né reintegrazione. Tortura.
Ormai abbiamo talmente paura che non riusciamo nemmeno più ad
ascoltare il silenzio degli immigrati rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria, che
continuano a cucirsi la bocca. Ormai siamo talmente ciechi che non riusciamo a
vedere che è da noi stessi che dovremmo guardarci e delle nostre certezze che
dovremmo avere paura.
Roberto Saviano – L’Espresso – 6 febbraio 2014
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