Non ho nulla contro i
social network, ma dipende dall’uso che se ne fa. E oggi troppe volte servono
solo per sostituire i veri incontri che non abbiamo più
Lei è su Facebook? Io sono scappata dalle foto di amici,
fidanzati, grigliate, dal tasto “mi piace” e dalle richieste di amicizia circa
un anno fa, poco prima dell’esame di maturità, e ho cancellato la mia
iscrizione al sito. Mi sentivo tremendamente inadatta.
Nella mia pagina non c’erano foto di discoteche, non c’erano
baci romantici davanti al Ponte Vecchio, non c’erano messaggi delle mie amiche
che mi scrivevano quanto ci divertissimo insieme. A ogni momento di noia ero là
a controllare gli altri e confrontare la loro la loro vita con la mia, non
certo vuota di impegni, amicizie e divertimenti, ma sicuramente meno caotica e
travolgente di quanto mi sembrasse quella dei miei “amici” virtuali.
Mi sentivo inadatta e inferiore, ma nello stesso tempo
trovavo gli altri irrimediabilmente finti.
A cosa serve far sapere alla rete artificiosa dei tuoi amici,
conoscenti e mai visti che non sei più single?
E’ appena mancato un tuo parente, stai andando al mare, stai
studiando in biblioteca, hai fatto un incidente in biblioteca, hai fatto un
incidente in macchina e perché, per prima cosa, lo scrivi su face book? Per non
parlare delle micro citazioni dei vari Pasolini, Bukowski, Da Andrè e altri
seminate qua e là. Capisci e condividi quello che leggi e che osservi o ti
spacci solo per un giovane intellettuale alla moda? Insomma: fai le cose per il
gusto di farle o per mostrarti?
Stella G.
No, non sono su Facebook, non si sono mai stato e mai ci
sarò. Anche se qualcuno si spaccia per me e scrive e risponde come se fossi io.
La polizia informatica mi ha detto che non può nulla contro queste intrusioni
e, giustamente, ha cose più importanti da controllare. Dopo di che non ho nulla
contro i social network, come al solito dipende dall’uso che se ne fa. E magari
c’è anche un buon uso, in questa nostra società fatta di solitudini di massa.
Anche se recenti studi americani condotti dal Jeffersonian Institute di
Washington hanno individuato forme di
dipendenza da Facebook e simili da cui è molto difficile liberarsi.
E questo vale soprattutto per i giovani che passano molto
tempo a incontrarsi nel mondo virtuale, invece che in quello reale, dicendo
cose di scarso interesse per il mercato che, individuati i gusti, bombarda i
malcapitati con una pioggia di messaggi pubblicitari per assecondare i loro
desideri o i loro sogni.
Passare molte ore a controllare i propri profili e, come lei
dice, senza aver nulla di davvero interessante da dire, ma solo per assaporare
il gusto di avere tanti contatti che danno la sensazione di sentirsi davvero
esistenti e per giunta interessanti, lascia intendere il grado di solitudine in
cui siamo precipitati e quanta desuetudine stiamo alimentando a incontrare gli
altri senza le maschere di false identità.
Se a questo si aggiunge che, rubando la password delle
persone che ci interessano ci mettiamo a controllarne la vita, i sentimenti,
gli scambi epistolari che non ci riguardano, costruendo e decostruendo
l’immagine che abbiamo dell’altro a partire delle informazioni che desumiamo,
allora il pericolo della paranoia è in agguato. E questo bisogno di controllo
totale prende il posto dell’innocenza da cui una relazione dovrebbe prendere le
mosse, accettando quella prima condizione di ogni incontro autentico che è
quella che l’altro è davvero un altro e non una risposta che si acconci
perfettamente alla nostra prefigurazione, perché questo non soddisfa tanto il
nostro bisogno d’amore, quanto il nostro bisogno di controllo e quindi di
potere.
E’ persuasione comune che la tecnologia ci ha fatto
progredire, ma leggendo la sua lettera l’impressione che ne ricavo è che siamo
tornati al pettegolezzo di paese, dove tutti sapevano i comportamenti e gli
stili di vita di tutti e li commentavano, inquadrando le persone in stereotipo,
intorno ai quali si alimentava la conversazione quando non anche la maldicenza.
Del resto di pettegolezzi sono infarcite molte trasmissioni televisive
pomeridiane, dove la messa in piazza dei propri sentimenti, delle proprie
emozioni, dei propri desideri sconfina nella spudoratezza fatta passare per
sincerità. “Non ho nulla da nascondere, nulla di cui vergognarmi”, quando la
“vergogna (parola che significa “temo la gogna”, ossia l’esposizione) è già nel
fatto che mi privo, mettendola in piazza, della mia interiorità. Uno
spogliarello dell’anima che considero più indecente di quello del corpo.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 22 febbraio 2014 -
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