Assessore romano alla
cultura, studioso di Pasolini,
si è spento a 66 anni
Che dispiacere, se n’è andato Gianni Borgna. Aveva 66 anni.
Allegro dirigente politico di un partito serio e severo quale poteva essere il
Pci; scrittore in tempi oscuri di libri dilettevoli e anche per questo tanto
più importanti; organizzatore di cultura viva e apprezzata; ma soprattutto un
uomo che aveva un dono raro nella vita pubblica, quello di innamorarsi di tutto
ciò che faceva, anche a costo di sacrificargli tutto ciò che pure rispettava,
ma che nell’animo suo metteva serenamente in secondo piano e forse gli faceva
anche un po’ ridere, ma senza superbia, né altri complessi. La carriera, il
successo, il potere erano per lui entità del tutto trascurabili rispetto alle
sue passioni.
E certo, avrà avuto anche lui le sue pene, quando
ingiustamente lo sottostimavano nell’assegnazione degli incarichi, chè molto di
più avrebbe meritato, o quando lo mandarono allo sbando alle elezioni, nel 2006
con i Ds, facendogli mancare i voti.
Ma certo lui non s’è pentito di aver dato, prima al suo
partito e poi alla sua città, quindi ai suoi lettori e ai suoi amici in termini
di sguardi, previsioni, consigli, infine all’Auditorium, alla Biennale o al
Teatro di Roma, ecco, Borgna ha dato agli altri molte più cose, molte più
sorprese di quante lui ne abbia mai ricevute.
Ma va bene così, il ricordo è ancora più vivo per questo, e
forse anche perché come nessun altro è rimasto fedele agli ideali della sua
gioventù. Un puro, ma gentile e curioso; con il che oggi si piange una persona
che aveva un bellissimo sorriso e una sorta di perenne buonumore, e tuttora non
c’è foto che lo ritragga triste o immusonito.
Era in effetti un tipo davvero simpatico, mite, intenso,
lievemente distratto e pieno di preziosi intuizioni, molte delle quali – ha
detto ieri Francesco Rutelli che lo ebbe a fianco nei suoi due mandati al
Campidoglio come ottimo assessore alla Cultura – sono ancora da scoprire
Piccoletto com’era, e soprannominato “Profumetto” per il dispiego borghese di
acqua di colonia, nel mondo arcigno e soporifero del Pci degli anni ’70 Borgna
poteva fare l’effetto di un cartone animato, e ancor più quando giovanissimo si
metteva un incredibile colbacco e invocava con placida sicurezza “un governo
operaio e contadino”, forse era una parodia, o forse no.
Una volta – nel pieno del Settantasette, un convegno sulla
rivolta giovanile al Palazzo dei Congressi dell’Eur – scandalizzò la
nomenclatura e violò la sacralità di quelle riunioni esordendo al microfono:
“Cioè, compagni, dico cazzo…” e proseguì per un interminabile minuto nello
studiato e del tutto inconcludente frasario delle assemblee studentesche, per
far capire che lo spirito del tempo era mutato, per sempre, e che solo
riconoscendolo il Pci poteva rimanere in contatto con quelle che nel lessico
post-togliattiano erano rubriche come “le giovani generazioni”.
In qualche modo – ma senza attribuirgliene alcuna
responsabilità – fu lui ad accompagnare e lanciare, chi più chi meno giovane,
l’effervescente gruppetto dirigente della Fgci romana, Nando Adornato, Fabrizio
Barca, Goffredo Bettini, Luciano Consoli, Dario Cossutta, Paolo Franchi, Marco
Magnani, Massimo Micucci e soprattutto Walter Veltroni, che di Borgna nel suo La bella politica (Rizzoli,1995)
scolpisce: “Uno bravo”Bravo, per la verità, e anche dotato di indubbia
sensibilità anticipatoria. Con alcuni di questi giovani, raccolti nel giornale Romagiovani, egli condivise la reciproca
scoperta di una figura ereticale qual era Pier Paolo Pasolini, che nel vertice
della Fgci romana aveva intravisto una sorta di raggio di sole nella plumbea
società minata dall’omologazione e dal genocidio culturale. Al funerale, a
Campo de’ fiori, fu Borgna insieme con Alberto Moravia a pronunciare l’orazione
funebre per il poeta assassinato in circostanze che fino all’ultimo, anche
assumendo ruoli in sede giudiziaria, si sforzò di chiarire con ricerche,
articoli e saggi.
Il destino ha voluto che morisse nei giorni del Festival di
Sanremo di cui Borgna, rivitalizzando la nozione gramsciana del “national
popolare”, riconobbe per primo il grande valore sociale e a cui ha dedicato un
libro molto bello, La grande evasione
(Savelli, 1980); diversi ne dedicò alla canzone italiana, a Gino Paoli e ad
altri cantautori, anche se tra i contributi più preziosi c’è quello che volle
dare, in amicizia, all’autobiografia di Claudio Villa, Una vita stupenda (Mondadori, 1987).
Amava dunque la musica, ma siccome era al tempo stesso
originale e sensibile, anche la poesia, il teatro, la pittura, le tradizioni
popolari e le culture – vedi il futurismo e l’amicizia con il suo successore
Umberto Croppi – che più erano lontane dai suoi orizzonti di partenza. Tutto
questo, e in fondo la sua stessa vita, assai più di una politica che frattempo
andava spaventosamente regredendo, l’hanno portato a capire molto prima e molto
meglio ciò che era accaduto.
Non è poco, davvero, e quando si dice che la sua morte
dispiace, un po’ è anche perché figure di questo tipo, liete, aperte, generose
e disinteressate, purtroppo scarseggiano – ed è un guaio per tutti.
Filippo Ceccarelli – La Repubblica – 21 febbraio 2014
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