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domenica 23 febbraio 2014

Lo Sapevate Che: Per Salvare la Cultura, Iniziamo a Studiare di Più...


I libri invenduti nei magazzini e le opere d’arte negli scantinati sono la misura del livello culturale del nostro Paese. E senza competenze vince il puro mercato

All’interno di Bookcity, tre giorni dedicati ai libri nella città di Milano, al Museo della Scienza un piccolo gruppo di editori indipendenti, che si fa chiamare “Mulini al Vento” (di cui la casa editrice che dirigo, Nottetempo, fa parte) aveva accatastato un grosso mucchio di libri regalati dagli stessi editori, di cui i partecipanti alla festa potevano attingere. Si formò una lunghissima coda e lei, poco lontano da quella pila, disse: “I piccoli editori fanno i libri più belli, ma poggiano sul nulla!”. Io mi risentii un po’ di quella frase e risposi che quella coda non era il nulla. E tuttavia ha ragione a dire che gli editori indipendenti continuano a pubblicare i libri che amano e non hanno spazio visibile per venderli.
Le librerie riservano lo spazio ai grossi editori, ai bestseller, alle promozioni, agli sconti, senz’altro criterio nell’esposizione che “quel che si vende prima”. Nulla nel nostro paese difende editori e librai indipendenti.
E tuttavia non poggiamo sul nulla. Poggiamo su una zolletta di terra che rischia di scivolare via con la prima pioggia. Come il paese, del resto.


Un tempo il mondo dell’arte era distante dalle gelide trattative finanziarie di oggi dove non servono più maestri, perché l’artista si crea a tavolino come un prodotto di marketing. Poi c’è il gallerista di fama che garantisce esponendo le “improbabili opere d’arte”, il critico che scrive fiumi di proclami elogiando l’astro nascente, invadendo tutti i mezzi di comunicazione, e il gioco è fatto.
L’opera di tale artista diventa oggetto di culto, fa tendenza, con tanto di collezionisti a seguito, che spesso d’arte non comprendono alcunché, ma comprano a suon di milioni di euro l’opera proposta dal “Pentagono dell’arte”. E i prezzi lievitano, spesso rivelandosi bolle che scoppiano, provocando un cumulo di insignificanti nullità.
Apollonia

A proposito dei beni, Marx operò la distinzione tra il loro valore d’uso e il loro valore di scambio, già rintracciale in Adam Smith, che gettò le basi dell’economia politica, e fatta propria dall’economista inglese David Ricardo. Il valore d’uso è la capacità di un bene di soddisfare i bisogni, mentre il valore di scambio è la capacitò di un bene di permutarsi con altri beni.
In un regime capitalistico, regolato dal mercato, i due valori non coincidono. Una bottiglia d’acqua, ad esempio, soddisfa lo stesso bisogno qui da noi come nel deserto, ma il suo valore di scambio non è uguale da noi e nel deserto, perché la misura non è il nostro bisogno, ma la sua permutabilità con altri beni, indicizzata dal denaro. Questa è la ragione per cui i libri che si presume abbiano maggior vendibilità sono preferiti dalle grandi case editrici a quelli di maggior spessore culturale a cui solitamente si dedicano le piccole case editrici, con ritorni economici insufficienti a tenere in piedi la loro attività, che viene ulteriormente depressa dalle librerie, che per non chiudere hanno bisogno di vendere.
Lo stesso può dirsi dell’arte che, al pari della moda, inventa gli artisti attraverso i media, crea il loro culto, e con il culto il mercato. Per cui è il mercato a decidere quali libri si devono pubblicare e quali artisti promuovere a prescindere dal loro effettivo valore. Un’opera, infatti, diventa “opera d’arte” solo quando entra nel mercato. Ed entrarvi non dipende dall’opera, ma dal marketing che intorno ad essa si decide di fare.
L’unico correttivo per invertire la tendenza sarebbe la diffusione di una cultura di massa che, incominciando dalla scuola, faccia della competenza dei lettori e dei frequentatori di mostre il criterio decisivo per selezionare ciò che vale e ciò che non vale. Ma finchè in Italia sono considerati forti lettori quelli che leggono 4 libri all’anno, e finchè per l’educazione artistica, è prevista una sola ora alla settimana nei licei, è chiaro che, con un livello culturale così basso, a regolare il successo di un libro o di un’opera d’arte è solo il mercato, artificialmente drogato dai media e dalla pubblicità.
Quando sento dire che, per risollevare l’economia, dovremmo investire sul nostro patrimonio artistico che è il più ricco del mondo, penso che non ci sia alcuna possibilità se prima non si investe sull’istruzione, in grado di creare una sensibilità di massa per cultura e arte (che non sono solo evento o spettacolo).

Umberto.galimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 11 gennaio 2014

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