I libri invenduti nei
magazzini e le opere d’arte negli scantinati sono la misura del livello
culturale del nostro Paese. E senza competenze vince il puro mercato
All’interno di Bookcity, tre giorni dedicati ai libri nella
città di Milano, al Museo della Scienza un piccolo gruppo di editori
indipendenti, che si fa chiamare “Mulini al Vento” (di cui la casa editrice che
dirigo, Nottetempo, fa parte) aveva accatastato un grosso mucchio di libri
regalati dagli stessi editori, di cui i partecipanti alla festa potevano
attingere. Si formò una lunghissima coda e lei, poco lontano da quella pila,
disse: “I piccoli editori fanno i libri più belli, ma poggiano sul nulla!”. Io
mi risentii un po’ di quella frase e risposi che quella coda non era il nulla.
E tuttavia ha ragione a dire che gli editori indipendenti continuano a
pubblicare i libri che amano e non hanno spazio visibile per venderli.
Le librerie riservano lo spazio ai grossi editori, ai
bestseller, alle promozioni, agli sconti, senz’altro criterio nell’esposizione
che “quel che si vende prima”. Nulla nel nostro paese difende editori e librai
indipendenti.
E tuttavia non poggiamo sul nulla. Poggiamo su una zolletta
di terra che rischia di scivolare via con la prima pioggia. Come il paese, del
resto.
Un tempo il mondo dell’arte era distante dalle gelide
trattative finanziarie di oggi dove non servono più maestri, perché l’artista
si crea a tavolino come un prodotto di marketing. Poi c’è il gallerista di fama
che garantisce esponendo le “improbabili opere d’arte”, il critico che scrive
fiumi di proclami elogiando l’astro nascente, invadendo tutti i mezzi di comunicazione,
e il gioco è fatto.
L’opera di tale artista diventa oggetto di culto, fa
tendenza, con tanto di collezionisti a seguito, che spesso d’arte non
comprendono alcunché, ma comprano a suon di milioni di euro l’opera proposta
dal “Pentagono dell’arte”. E i prezzi lievitano, spesso rivelandosi bolle che
scoppiano, provocando un cumulo di insignificanti nullità.
Apollonia
A proposito dei beni, Marx operò la distinzione tra il loro
valore d’uso e il loro valore di scambio, già rintracciale in Adam Smith, che
gettò le basi dell’economia politica, e fatta propria dall’economista inglese
David Ricardo. Il valore d’uso è la capacità di un bene di soddisfare i
bisogni, mentre il valore di scambio è la capacitò di un bene di permutarsi con
altri beni.
In un regime capitalistico, regolato dal mercato, i due
valori non coincidono. Una bottiglia d’acqua, ad esempio, soddisfa lo stesso
bisogno qui da noi come nel deserto, ma il suo valore di scambio non è uguale
da noi e nel deserto, perché la misura non è il nostro bisogno, ma la sua
permutabilità con altri beni, indicizzata dal denaro. Questa è la ragione per
cui i libri che si presume abbiano maggior vendibilità sono preferiti dalle
grandi case editrici a quelli di maggior spessore culturale a cui solitamente
si dedicano le piccole case editrici, con ritorni economici insufficienti a
tenere in piedi la loro attività, che viene ulteriormente depressa dalle
librerie, che per non chiudere hanno bisogno di vendere.
Lo stesso può dirsi dell’arte che, al pari della moda,
inventa gli artisti attraverso i media, crea il loro culto, e con il culto il
mercato. Per cui è il mercato a decidere quali libri si devono pubblicare e
quali artisti promuovere a prescindere dal loro effettivo valore. Un’opera,
infatti, diventa “opera d’arte” solo quando entra nel mercato. Ed entrarvi non
dipende dall’opera, ma dal marketing che intorno ad essa si decide di fare.
L’unico correttivo per invertire la tendenza sarebbe la
diffusione di una cultura di massa che, incominciando dalla scuola, faccia
della competenza dei lettori e dei frequentatori di mostre il criterio decisivo
per selezionare ciò che vale e ciò che non vale. Ma finchè in Italia sono
considerati forti lettori quelli che leggono 4 libri all’anno, e finchè per
l’educazione artistica, è prevista una sola ora alla settimana nei licei, è
chiaro che, con un livello culturale così basso, a regolare il successo di un
libro o di un’opera d’arte è solo il mercato, artificialmente drogato dai media
e dalla pubblicità.
Quando sento dire che, per risollevare l’economia, dovremmo
investire sul nostro patrimonio artistico che è il più ricco del mondo, penso
che non ci sia alcuna possibilità se prima non si investe sull’istruzione, in
grado di creare una sensibilità di massa per cultura e arte (che non sono solo
evento o spettacolo).
Umberto.galimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 11 gennaio 2014
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