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venerdì 28 febbraio 2014

Lo Sapevate Che: Carta Canta...


C’erano una volta le primarie…..

Sono servite per incoronare il segretario del Pd.
Ma poi si sono pressoché estinte, come si è visto per Emiliano, Pigliaru, Chiamparino: è sempre più difficile trovare un non renziano disposto a sfidare gli uomini del nuovo leader

A chi gli rimprovera di essersi presto acconciato ai giochetti di palazzo, Matteo Renzi sbatte in faccia i “tre milioni di voti delle primarie”. Un dato incontestabile, anche se a essere precisi l’8 dicembre i votanti furono ufficialmente 2.814.801 e a scegliere Renzi furono 1.895.332, contro 510.970 di Gianni Cuperlo e i 399.473 di Pippo Civati. Il fatto è che, una volta servite a incoronare il sindaco di Firenze alla segreteria, trampolino di lancio per Palazzo Chigi, le primarie si sono pressoché estinte. Eppure l’articolo 18 dello Statuto del Pd parla chiaro: “I candidati alla carica di Sindaco, Presidente di Provincia e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coaizione”. Quanto ai segretari e alle assemblee regionali, sono eletti col sistema delle “primarie aperte a tutti gli elettori”.
In Sardegna Il Pd ha appena schierato come candidato governatore l’economista renziano Francesco Pigliaru, paracadutato dall’alto all’ultimo momento al posto della europarlamentare Francesca Barracciu, liquidata in extremis perché inquisita. In Piemonte, dove si voterà in maggio per rimpiazzare la giunta plurimputata del governatore abusivo Roberto Cota, è quasi certo che correrà il turborenziano Sergio Chiamparino, già (due volte) sindaco di Torino e presidente uscente della Compagnia San Paolo (la fondazione che controlla il gruppo bancario Intesa San Paolo). Il quale non fa che ripetere di non aver nulla in contrario alle primarie, purché “siano vere e non servano a valutare spostamenti dello 0,5 per cento”. Il successore Piero Fassino sulla poltrona di primo cittadino sulla poltrona di primo cittadino torinese le ha già financo escluse a priori: il candidato dev’essere Chiamparino,  punto e basta. Perché? Perché sì. Come se lo Statuto che le primarie le impone, e non le lascia certo al buon cuore dei candidati favoriti, fosse un optional.
Per evitare brutte sorprese nell’elezione dei segretari regionali domenica scorsa, si è fatto in modo quasi dappertutto che gli aspiranti fossero uno per regione, così da rendere inutili le primarie.
Che infatti, da regola che erano, sono diventate una rarissima eccezione. In Toscana il candidato unico era il renziano Dario Parrini. In Puglia il sindaco di Bari Michele Emiliano, anche lui fedelissimo del segretario nazionale (aveva un paio di rivali, ma si sono prontamente ritirati). Stessa sorte per Roger De Menech in Veneto, per Alessandra Grim in Friuli Venezia Giulia, Fulvio Centoz in Valle d’Aosta. E anche là dove i candidati erano più di uno e dunque si sono aperti i gazebo, l’affluenza è crollata. La “base” è rimasta a casa, in preda a un diffuso senso di inutilità.
Insomma, Lo Strumento democratico per eccellenza che a fine 2012 col duello Bersani-Renzi e a fine 2013 con la sfida Renzi-Cuperlo-Civati aveva galvanizzato l’elettorato democratico ed elettrizzato i sondaggi, si è improvvisamente afflosciato. Tant’è che è sempre più forte la tentazione di abbandonarlo nelle prossime consultazioni per le cariche interne e istituzionali.
Anche perché l’inesorabile renzianizzazione del Pd, già in atto dopo le primarie, è proseguita inarrestabile con la cacciata del governo Letta. E oggi è sempre più difficile trovare un dirigente non renziano (della prima e soprattutto dell’ultima ora) disposto a sfidare gli uomini del segretario-padrone. Nessuno, al momento, nota l’involuzione personalistica di un partito che Veltroni chiamò “democratico” anche perché vantava una diretta e continua interazione fra vertice e base: troppo vivo è il ricordo di almeno due decenni di risse correntizie e fratricide che hanno lastricato di cadaveri (politici) il campo del centrosinistra italiano. Ma questo non basta a dissipare un paradosso di un partito nato orizzontale (almeno a parole) e divenuto rapidamente verticale. Berlusconi e Grillo, ma anche Di Pietro e Monti, accusati fino all’altroieri proprio dal Pd di guidare partiti personali a scarso tasso di democrazia interna, hanno di che sorridere. Fra un po’ potranno salutare Renzi con un affettuoso “benvenuto nel club”.

Marco Travaglio – L’Espresso – 27 febbraio 2014

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