C’erano una volta le
primarie…..
Sono servite per
incoronare il segretario del Pd.
Ma poi si sono pressoché
estinte, come si è visto per Emiliano, Pigliaru, Chiamparino: è sempre più
difficile trovare un non renziano disposto a sfidare gli uomini del nuovo
leader
A chi gli rimprovera di essersi presto acconciato ai
giochetti di palazzo, Matteo Renzi sbatte in faccia i “tre milioni di voti
delle primarie”. Un dato incontestabile, anche se a essere precisi l’8 dicembre
i votanti furono ufficialmente 2.814.801 e a scegliere Renzi furono 1.895.332,
contro 510.970 di Gianni Cuperlo e i 399.473 di Pippo Civati. Il fatto è che,
una volta servite a incoronare il sindaco di Firenze alla segreteria,
trampolino di lancio per Palazzo Chigi, le primarie si sono pressoché estinte.
Eppure l’articolo 18 dello Statuto del Pd parla chiaro: “I candidati alla
carica di Sindaco, Presidente di Provincia e Presidente di Regione vengono
scelti attraverso il ricorso alle primarie di coaizione”. Quanto ai segretari e
alle assemblee regionali, sono eletti col sistema delle “primarie aperte a
tutti gli elettori”.
In Sardegna Il Pd ha appena schierato come candidato
governatore l’economista renziano Francesco Pigliaru, paracadutato dall’alto
all’ultimo momento al posto della europarlamentare Francesca Barracciu,
liquidata in extremis perché inquisita. In Piemonte, dove si voterà in maggio
per rimpiazzare la giunta plurimputata del governatore abusivo Roberto Cota, è
quasi certo che correrà il turborenziano Sergio Chiamparino, già (due volte)
sindaco di Torino e presidente uscente della Compagnia San Paolo (la fondazione
che controlla il gruppo bancario Intesa San Paolo). Il quale non fa che
ripetere di non aver nulla in contrario alle primarie, purché “siano vere e non
servano a valutare spostamenti dello 0,5 per cento”. Il successore Piero
Fassino sulla poltrona di primo cittadino sulla poltrona di primo cittadino
torinese le ha già financo escluse a priori: il candidato dev’essere
Chiamparino, punto e basta. Perché?
Perché sì. Come se lo Statuto che le primarie le impone, e non le lascia certo
al buon cuore dei candidati favoriti, fosse un optional.
Per evitare brutte sorprese nell’elezione dei segretari
regionali domenica scorsa, si è fatto in modo quasi dappertutto che gli
aspiranti fossero uno per regione, così da rendere inutili le primarie.
Che infatti, da regola che erano, sono diventate una
rarissima eccezione. In Toscana il candidato unico era il renziano Dario
Parrini. In Puglia il sindaco di Bari Michele Emiliano, anche lui fedelissimo
del segretario nazionale (aveva un paio di rivali, ma si sono prontamente
ritirati). Stessa sorte per Roger De Menech in Veneto, per Alessandra Grim in
Friuli Venezia Giulia, Fulvio Centoz in Valle d’Aosta. E anche là dove i
candidati erano più di uno e dunque si sono aperti i gazebo, l’affluenza è
crollata. La “base” è rimasta a casa, in preda a un diffuso senso di inutilità.
Insomma, Lo Strumento democratico per eccellenza che a
fine 2012 col duello Bersani-Renzi e a fine 2013 con la sfida
Renzi-Cuperlo-Civati aveva galvanizzato l’elettorato democratico ed
elettrizzato i sondaggi, si è improvvisamente afflosciato. Tant’è che è sempre
più forte la tentazione di abbandonarlo nelle prossime consultazioni per le
cariche interne e istituzionali.
Anche perché l’inesorabile renzianizzazione del Pd, già in
atto dopo le primarie, è proseguita inarrestabile con la cacciata del governo
Letta. E oggi è sempre più difficile trovare un dirigente non renziano (della
prima e soprattutto dell’ultima ora) disposto a sfidare gli uomini del segretario-padrone.
Nessuno, al momento, nota l’involuzione personalistica di un partito che
Veltroni chiamò “democratico” anche perché vantava una diretta e continua
interazione fra vertice e base: troppo vivo è il ricordo di almeno due decenni
di risse correntizie e fratricide che hanno lastricato di cadaveri (politici)
il campo del centrosinistra italiano. Ma questo non basta a dissipare un
paradosso di un partito nato orizzontale (almeno a parole) e divenuto rapidamente
verticale. Berlusconi e Grillo, ma anche Di Pietro e Monti, accusati fino
all’altroieri proprio dal Pd di guidare partiti personali a scarso tasso di
democrazia interna, hanno di che sorridere. Fra un po’ potranno salutare Renzi
con un affettuoso “benvenuto nel club”.
Marco Travaglio – L’Espresso – 27 febbraio 2014
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