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domenica 16 febbraio 2014

Lo Sapevate Che: Il Vetro Soffiato...


Si cerca il successo per non morire

Chi arriva al potere ha una malattia psicopatica, sostiene un libro. Ma la molla che spinge a cercarlo credo sia il desiderio di essere ricordati dai posteri

Il nostro bravissimo collaboratore Gabriele Romagnoli ha scritto venerdì scorso su “Repubblica” un articolo di grande interesse recensendo un libro di Jon Ronson e citando a suo supporto statistiche, sondaggi e altri scrittori che hanno trattato temi pertinenti a quelli di Ronson il cui titolo definisce con estrema chiarezza l’argomento: “Psicopatici al potere”. La tesi è che non alcuni ma tutti quelli che conquistano il potere in qualunque campo sono affetti da quella  psicopatica della quale l’autore descrive i sintomi che il suo recensore elenca ed integra. Ho letto anch’io il libro di Ronson oltreché la recensione di Romagnoli. Il tema mi interessa da molto tempo e ne ho a lungo parlato in alcuni dei miei libri, specialmente nell’ultimo pubblicato nello scorso ottobre, ma sono arrivato a conclusioni molto diverse.
Prima Però Di Dire la mia in proposito è necessario che riassuma i punti salienti dell’opera di Ronson, uno scrittore che spazia in vari campi del sapere, dalla psicologia al romanzo, al cinema, alla politica. Chi è lo psicopatico di cui parla Ronson e lo psicologo canadese Hare citato da Romagnoli perché anche lui ha recensito il libro in questione? “Egocentrismo, seduzione, loquacità, tendenza al grandioso, menzogna patologica, abilità nella manipolazione, assenza di rimorsi e complessi di colpa, deficit del controllo comportamentale, promiscuità sessuale, mancanza di obiettivi realistici  a lungo termine, desiderio di essere amato dagli altri non amandone nessuno, versatilità criminale”. Commento di Romagnoli (assai spiritoso e veristico): “Dove trovare persone rispondenti a questo identikit? In galera ovviamente, ma anche a Wall Street o a Davos”.
Bene. L’elenco dei connotati di questo genere di psicopatico è piuttosto ampio ma contiene, secondo me, alcune caratteristiche sbagliate. Per esempio non ritengo vero che il soggetto di cui discutiamo non si ponga obiettivi realistici a lungo termine; di solito se li pone, eccome! Resta da vedere se li realizzerà, ma questo è un requisito tipico di ogni obiettivo a lungo termine. E poi: promiscuità sessuale. C’è una quantità notevole di psicopatici che attribuiscono al sesso poca importanza salvo il bisogno primario che fa parte delle caratteristiche di ogni specie animale. E ancora: propensione alla noia. In alcuni casi questo requisito c’è ma in altri affatto. Per il resto l’elenco Ronson-Hare è pienamente accettabile.
Questi sono gli effetti: quanto alla causa, secondo Ronson, si tratta di solito d’un disturbo mentale congenito, ma anche dell’educazione  ricevuta e non appropriata, del ceto sociale cui si appartiene, del luogo dove si è nati e insomma dell’insieme delle condizioni che influenzano la formazione di una persona. Ai quali aggiungerei il caso, gli incontri, le amicizie. Come si vede, si tratta di condizioni che riguardano ogni vivente salvo quella del disturbo mentale.
Qui Però Comincia il mio dissenso sulla tesi di fondo del libro di Ronson che è il seguente: tutti i viventi, dovunque nati e dovunque educati, ricchi e poveri, colti ed incolti, sono spinti a conquistare il successo, a diventare più ricchi (o meno poveri), a poter comandare, a donare amore per riceverne in abbondanza dagli altri, a pretendere libertà per sé anche se essa può limitare quella degli altri,  privilegiare l’amore per alcune persone rispetto all’amore verso tutti. La causa di questi comportamenti estremamente diffusi non è un disturbo mentale che modifica la psicologia e i comportamenti, ma è l’ineluttabilità della morte che condiziona ogni nostro gesto, ogni nostra decisione, ogni nostro pensiero, dominati come siamo dalla triste certezza che a quell’appuntamento finale non potremo mancare anche se non sappiamo né come né dove né quando avverrà.
Le persone consapevoli (sono poche in rapporto al totale degli umani viventi) sanno di questo perenne confronto che ci accompagna per tutta la vita e la cui percezione ha un confuso inizio all’età di due o tre anni dopo che il cordone ombelicale col ventre materno è stato reciso. A la grandissima maggioranza dei viventi è inconsapevole e la paura della morte resta rimossa e confinata nei recessi dell’inconscio. Agisce comunque su di noi e ci condiziona ma non ne siamo consapevoli. In che modo agisce? Nel solo modo di allontanare la morte. Non con cure fisiche che allunghino la vita: ben vengano. Ma l’appuntamento finale resta e il fatto che accada mediamente per tutta la popolazione a 70 anni invece che a 60 ed ora si colloca a 81 per gli uomini e  a 83 per le donne non cambia minimamente il problema: la Signora di nero vestita è sempre lì che ci aspetta prima o poi vestita è sempre  lì che ci aspetta e prima o poi saremo toccati dalla sua mano e diventeremo una spoglia.          
I Modi Per Combatterla ci sono. Uno è quello di credere in un aldlà dove la vita continua in altri modi e altre forme ma senza perdere memoria di noi stessi e dei nostri cari che lì ci attendono o che lì ci raggiungeranno. L’altro modo-che vale per tutti, che abbiano fede nell’aldilà o non l’abbiano affatto – è di ottenere successo: più potere, più ricchezza, più amore, primazia rispetto agli altri, ciascuno al proprio livello. Per lasciare una qualche memoria di sé. A pochi o a tanti, per dieci giorn dalla morte o per dieci anni o per un secolo.  Più è lunga la durata della memoria più ci si allunga la vita nel senso che siamo ricordati. Omero ancora lo leggiamo nelle scuole e sono passati quasi tremila anni; Dante ne sono passati 800, Napoleone 200 e così (per noi italiani) Garibaldi.
Costoro avevano caratteristiche psicopatiche? Forse sì, qualcuno; quella cje quasi tutti abbiamo è l’amore per sé. Se non sorpassa certi limiti e non deriva da un disturbo mentale, l’amore per sé è un presidio necessario della nostra vita se ben armonizzato con l’amore per gli altri che è un altro istinto innato nella specie socievole cui apparteniamo.

Eugenio Scalfari – L’Espresso – 20 febbraio 2014 

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