Si cerca il successo
per non morire
Chi arriva al potere ha
una malattia psicopatica, sostiene un libro. Ma la molla che spinge a cercarlo
credo sia il desiderio di essere ricordati dai posteri
Il nostro bravissimo collaboratore Gabriele Romagnoli ha
scritto venerdì scorso su “Repubblica” un articolo di grande interesse
recensendo un libro di Jon Ronson e citando a suo supporto statistiche,
sondaggi e altri scrittori che hanno trattato temi pertinenti a quelli di
Ronson il cui titolo definisce con estrema chiarezza l’argomento: “Psicopatici
al potere”. La tesi è che non alcuni ma tutti quelli che conquistano il potere
in qualunque campo sono affetti da quella
psicopatica della quale l’autore descrive i sintomi che il suo recensore
elenca ed integra. Ho letto anch’io il libro di Ronson oltreché la recensione
di Romagnoli. Il tema mi interessa da molto tempo e ne ho a lungo parlato in
alcuni dei miei libri, specialmente nell’ultimo pubblicato nello scorso
ottobre, ma sono arrivato a conclusioni molto diverse.
Prima Però Di Dire la mia in proposito è necessario che
riassuma i punti salienti dell’opera di Ronson, uno scrittore che spazia in
vari campi del sapere, dalla psicologia al romanzo, al cinema, alla politica.
Chi è lo psicopatico di cui parla Ronson e lo psicologo canadese Hare citato da
Romagnoli perché anche lui ha recensito il libro in questione? “Egocentrismo,
seduzione, loquacità, tendenza al grandioso, menzogna patologica, abilità nella
manipolazione, assenza di rimorsi e complessi di colpa, deficit del controllo
comportamentale, promiscuità sessuale, mancanza di obiettivi realistici a lungo termine, desiderio di essere amato
dagli altri non amandone nessuno, versatilità criminale”. Commento di Romagnoli
(assai spiritoso e veristico): “Dove trovare persone rispondenti a questo
identikit? In galera ovviamente, ma anche a Wall Street o a Davos”.
Bene. L’elenco dei connotati di questo genere di psicopatico
è piuttosto ampio ma contiene, secondo me, alcune caratteristiche sbagliate.
Per esempio non ritengo vero che il soggetto di cui discutiamo non si ponga
obiettivi realistici a lungo termine; di solito se li pone, eccome! Resta da
vedere se li realizzerà, ma questo è un requisito tipico di ogni obiettivo a
lungo termine. E poi: promiscuità sessuale. C’è una quantità notevole di
psicopatici che attribuiscono al sesso poca importanza salvo il bisogno
primario che fa parte delle caratteristiche di ogni specie animale. E ancora:
propensione alla noia. In alcuni casi questo requisito c’è ma in altri affatto.
Per il resto l’elenco Ronson-Hare è pienamente accettabile.
Questi sono gli effetti: quanto alla causa, secondo Ronson,
si tratta di solito d’un disturbo mentale congenito, ma anche
dell’educazione ricevuta e non
appropriata, del ceto sociale cui si appartiene, del luogo dove si è nati e
insomma dell’insieme delle condizioni che influenzano la formazione di una
persona. Ai quali aggiungerei il caso, gli incontri, le amicizie. Come si vede,
si tratta di condizioni che riguardano ogni vivente salvo quella del disturbo
mentale.
Qui Però Comincia il mio dissenso sulla tesi di fondo
del libro di Ronson che è il seguente: tutti i viventi, dovunque nati e
dovunque educati, ricchi e poveri, colti ed incolti, sono spinti a conquistare
il successo, a diventare più ricchi (o meno poveri), a poter comandare, a
donare amore per riceverne in abbondanza dagli altri, a pretendere libertà per
sé anche se essa può limitare quella degli altri, privilegiare l’amore per alcune persone
rispetto all’amore verso tutti. La causa di questi comportamenti estremamente
diffusi non è un disturbo mentale che modifica la psicologia e i comportamenti,
ma è l’ineluttabilità della morte che condiziona ogni nostro gesto, ogni nostra
decisione, ogni nostro pensiero, dominati come siamo dalla triste certezza che
a quell’appuntamento finale non potremo mancare anche se non sappiamo né come
né dove né quando avverrà.
Le persone consapevoli (sono poche in rapporto al totale
degli umani viventi) sanno di questo perenne confronto che ci accompagna per
tutta la vita e la cui percezione ha un confuso inizio all’età di due o tre
anni dopo che il cordone ombelicale col ventre materno è stato reciso. A la
grandissima maggioranza dei viventi è inconsapevole e la paura della morte
resta rimossa e confinata nei recessi dell’inconscio. Agisce comunque su di noi
e ci condiziona ma non ne siamo consapevoli. In che modo agisce? Nel solo modo
di allontanare la morte. Non con cure fisiche che allunghino la vita: ben
vengano. Ma l’appuntamento finale resta e il fatto che accada mediamente per
tutta la popolazione a 70 anni invece che a 60 ed ora si colloca a 81 per gli
uomini e a 83 per le donne non cambia
minimamente il problema: la Signora di nero vestita è sempre lì che ci aspetta
prima o poi vestita è sempre lì che ci
aspetta e prima o poi saremo toccati dalla sua mano e diventeremo una spoglia.
I Modi Per Combatterla ci sono. Uno è quello di credere in
un aldlà dove la vita continua in altri modi e altre forme ma senza perdere
memoria di noi stessi e dei nostri cari che lì ci attendono o che lì ci
raggiungeranno. L’altro modo-che vale per tutti, che abbiano fede nell’aldilà o
non l’abbiano affatto – è di ottenere successo: più potere, più ricchezza, più
amore, primazia rispetto agli altri, ciascuno al proprio livello. Per lasciare
una qualche memoria di sé. A pochi o a tanti, per dieci giorn dalla morte o per
dieci anni o per un secolo. Più è lunga
la durata della memoria più ci si allunga la vita nel senso che siamo
ricordati. Omero ancora lo leggiamo nelle scuole e sono passati quasi tremila
anni; Dante ne sono passati 800, Napoleone 200 e così (per noi italiani)
Garibaldi.
Costoro avevano caratteristiche psicopatiche? Forse sì,
qualcuno; quella cje quasi tutti abbiamo è l’amore per sé. Se non sorpassa
certi limiti e non deriva da un disturbo mentale, l’amore per sé è un presidio
necessario della nostra vita se ben armonizzato con l’amore per gli altri che è
un altro istinto innato nella specie socievole cui apparteniamo.
Eugenio Scalfari – L’Espresso – 20 febbraio 2014
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