Di Mariapia Veladiano
(…)
L’interrogativo sul dolore è scandalo per chi crede e per chi
non crede. La misura è la stessa, e così l’impotenza rispetto a tutto il male della natura, che
non dipende da noi, spesso anche rispetto al male della storia, che molto
dipende da noi. I tentativi di chiudere il cerchio del male dentro un confine
concettuale hanno portato i risultati impronunciabili.
A una insopportabile retorica che sui temi più tremendi
vorrebbe essere devozione ed è solo contraddizione e anche offesa a chi patisce
e muore. Nessuna algebra del bene e del male può essere evocata davanti al
dolore. Anche chi crede conosce tutta la tentazione del disperare. E a volte
dispera. Ma non per sempre certo non grazie a una malintesa devozione che
blocca il pensiero davanti al dubbio, ma perché non è proprio capace di farlo.
La sua storia con Dio lo fa rialzare. Nel corpo che si rimette in piedi anche
suo malgrado quando cade e nello spirito che non sa pensarsi finito. E allora
grazie alla sua storia con Dio, non lascia Dio da solo davanti all’ingiustizia
del mondo. E la verità che noi possiamo e di cui parliamo è sempre verità
umana. Anche da credenti. Quel veder per speculum in aenigmate, in modo
confuso, come in uno specchio, che puù essere inganno qui e ora e ci fa
innamorare di un’ombra, idolo che si chiama denaro, ambizione, potere. In
realtà tutte varianti del potere. Del voler essere Dio invece che figli e
fratelli. E quanto dolore ha portato all’umanità e alla Chiesa la verità in
forma di idolo. Già questo dovrebbe trasformare il nostro parlare di verità in
ascolto silenzioso sul confine del mondo. E’ un credere e non un sapere il
nostro, dentro l’umana libertà e dentro un umano fluttuare di maggiore o minore
chiarezza e convinzione. E’ a volte un sollevarsi di allegria contagiosa, altre
un quieto attendere, a seconda dei momenti e della qualità del sentire non solo
individuale ma anche sociale e storico che ci investe. E’ poter credere che il
buon esito del nostro agire è assicurato perché non dipende solo da noi. Perché
è stato promesso da chi ha mantenuto la più impensabile delle promesse, la
sconfitta della morte e in noi questo poter rinascere lo abbiamo vissuto. E non
sappiamo perché altri no, ma non vogliamo essere noi l’inciampo, con la nostra
verità scolpita e contundente, o con la nostra identità coltivata come
separatezza, idolo ancora una volta, oppure con i nostri valori non
negoziabili. Orribile espressione mercantile.
Tutto il resto rimane, è comune umanità di chi crede e chi
non crede: lo scandalo del male, il mistero dell’impotenza storica dell’azione,
l’ingiustizia che imperversa a dispetto di un diritto che ha oggettivamente
disegnato un immenso progresso nella nostra storia. La coscienza che si
interroga. E nella battaglia buona per la nostra convivenza, guai a lavorare
per dividere le buone forze in campo. Insieme è già un credere. Che spendersi
per la vita affida a Dio i confini di questa immensa patria di uomini liberi.
Intanto nel bene operare e pensare ci si fa compagnia. Esser soli moltiplica la
paura. E anche la Trinità si fa compagnia .
Dialogo tra credenti e non credenti – Papa Francesco –
Eugenio Scalfari
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