L’anticipazione / Nel
suo nuovo libro Paolo Legrenzi riflette sulla natura di una parola che ha
risvolti psicologici ed economici
Giulio Nascimbeni, sul Corriere
della Sera dell’8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal
mensile Il Migliore, diretto da
Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole “che rischiano di
diventare arcaiche e quindi svanire”. Una di queste parole era frugale, una
parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo
di Giovanni Cassiano dove si parla di “virtù frugali”.
Oggi grazie all’uso del motore di ricerca google Trende,
potete scrivere “frugalità”, abbondanza” e accorgervi che la crociata di
Pierroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla
frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi “ frugality, abundance”, scoprirete che il
primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009,
dal titolo: FrugalityNow Fashionable–And
Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente
parlando?
1.
La
frugalità non è la povertà E’ una scelta, non una costrizione. Se si sembra
frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri
sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto,
classifica come “poveri assoluti”. Si potrebbe pensare che, in una società
ricca, gli “assolutamente poveri” diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per
cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per
cento delle famiglie del 2012.
2.
La
frugalità non è neppure l’avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera
e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne,
all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali. Da questo punto di vista il
prototipo dell’avarizia è la figura tragica di Mazzarò, il protagonista della
novella La roba di Giovanni Verga (1883). Vi si narra il Mazzarò che, partendo
da zero, col passare del tempo, accumula una fortuna appropriandosi delle terre
di un barone: “Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua
testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore, o dalla
malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e
sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si
logorava pensando alla sua roba(…) quando uno è fatto così, vuol dire che è
fatto per la roba.
Mazzarò diventa vecchio. Pensa che sia “un’ingiustizia di
Dio” dover lasciare la roba dopo essersi logorata la vita per accumularla:
“Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la su roba, per pensare
all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a
colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia,
vientene con me!”.
Non sembre l’avarizia è un’ossessione che arriva a
coinvolgere l’aldilà, più spesso è una passione terrena, solitaria e triste.
Comunque p ben lontana dalla frugalità, almeno nelle forme in cui l’avarizia si
manifestava ai tempi di Verga.
3. La frugalità non è
nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare
quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio
“nonno Tano”. Il “nonno Tano” (in realtà era il mio bisnonno Gaetano Rossi,
morì l’8 giungo del 1947) mi è rimasto impresso perché ero l’unico nipote
ammesso nella sua camera e, quando lo vidi morire, credevo si trattasse di un
sonno prolungato.
Il papà di Gaetano, Alessandro, industriale tessile, aveva
una nuora, Maria, madre dei suoi nipoti prediletti. Maria gli chiede di
acquistare un carrettino per far giocare i nipoti: lei aveva già comprato un
pony a Verona. Ecco la risposta di Alessandro: “Duolmi, o mia carissima, di non
poter aderire alla tua richiesta: non comprerò la charrette, e non approvo
l’acquisto del cavallino. Con lo stesso corriere, insieme alla tua letterina,
m’è pervenuta la relazione settimanale di Fochesato (direttore del lanificio)
il quale mi avverte doversi licenziare due operai recentemente assunti in
prova, perché il loro rendimento non corrisponde al salario che per conto loro
inciderebbe sul bilancio dell’opificio. Considera, figliola carissima, che
prezzo di poney e charrette corrisponde al salario dei due che devonsi
licenziare”.
In questa risposta c’è l’essenza della frugalità, che è una
scelta di stile e di buon gusto. A differenza delle decisioni collegate al
risparmio, e finalizzate all’acquisto di beni, o a sconfiggere l’incertezza del
futuro, la frugalità non ha altro scopo se non se stessa. Una volta, chi faceva
scelte frugali spesso non si accorgeva di farle, semplicemente perché gli
sembravano ovvie: si palesava solo se trascurata, come nel caso di Maria, che
vi è costretta da un’imposizione di Alessandro (…).
Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo
tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere,
ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del
superfluo. Il risparmio, ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva
costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non
prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di
vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi
solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che
ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte.
(…).La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci
rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica,
invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità
finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che
s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola.
(…)
Paolo Legrenzi – La Repubblica – Cultura – 21 febbraio 2014
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