Scrive il sociologo
inglese Stanley Cohen: “La negazione è un modo per mantenere segreta a noi
stessi la verità che non abbiamo il coraggio di affrontare”oggi
Non pensa che oggi
si ricorra alla “parola” solo per falsificare
la realtà? Che si ricorra a metafore ed eufemismi per non denunciare
chiaramente quelli che sono i “mali”
della contemporaneità? La “parola” si è fatta maschera del “vero” e tutti o
quasi sottostanno alla colonizzazione delle proprie menti da parte di un
sistema sociopolitico decadente. Ora più che mai, ciascuno dovrebbe riflettere
sul significato delle parole e andare ad
appropriarsene rileggendosi il Vocabolario della lingua italiana. Si dice per
esempio “senza tetto” o “barbone” per non dire che le persone hanno perso il
lavoro e quindi…Oppure “integrazione”: quale l’implicito? “Interculturalità”:
su quali basi e perché? Potrei così continuare all’infinito, ma non ho
intenzione di tediarla. Forse, ripartendo dalla “parola”, potremmo tutti incominciare
a sfuggire l’incultura dilagante, assumendoci la responsabilità delle nostre
azioni, evitando di adagiarci su figure di comodo che hanno solo l’obiettivo di
rendere leggibile e visibile una realtà “resa cieca”. Oggi chi sono gli
intellettuali, detentori della parola “vera” e quale sarebbe il loro compito?
Forse quello di svelare alle masse narcotizzate la grande menzogna agitata
sistematicamente dal Sistema?
Cosa ne pensa?
Maristella Greco, Lecce
Oggi sappiamo cosa succede nel mondo non perché ne siamo
testimoni, ma per l’informazione che i mezzi di comunicazione ci offrono. E qui
il linguaggio fa i suoi giochi di verità e menzogna che lei giustamente
denuncia con i suoi esempi: “Senza tetto”, “Barbone” sono parole che inducono
un leggero sentimento di compassione, senza che da parte nostra ci sia un
minimo di interessamento per la sorte di chi si trova in quelle condizioni. Al
massimo una leggera indignazione verso quelle amministrazioni che non risolvono
il problema, perché noi ci sentiamo esonerati dall’interessarci di quel
disagio. “Integrazione” significa di fatto che l’immigrato deve diventare come
uno di noi negli usi e nei costumi che ci caratterizzano, senza che noi si
faccia un passo per comprendere i suoi usi e i suoi costumi. In fondo, anche se
non abbiamo la spudoratezza di dirlo (anche se ogni tanto qualcuno lo dice), ci
consideriamo la “civiltà superiore” e quindi riteniamo che sarebbe un bene che
anche gli immigrati raggiungano il nostro livello.
Ma il luogo eminente della falsificazione tramite il
linguaggio avviene a livello politico, quando una pulizia etnica si chiama
“scambio di popolazione”, come se non comportasse alcuna sofferenza lo
sradicamento della propria terra. Allo stesso modo, l’abbiamo sentito dire più
volte, un massacro si chiama “danno collaterale”, dove è sottinteso “non
l’abbiamo fatto apposta”, “non era nelle nostre intenzioni”, e per la morale
dell’intenzione, che ancora non ha recepito il messaggio di Max Weber che ha
proposto la morale della responsabilità, siamo tutti assolti. Non parliamo poi
della guerra e delle sue atrocità che la nostra ipocrisia ha la spudoratezza di
chiamare “missione di pace”.
La falsificazione non riguarda solo l’informazione politica o
mediatica, ma si nasconde segretamente nell’anima di ciascuno di noi.
Espressioni quali : “chiudere un occhio”, guardare dall’altra parte”, “mettere
la testa sotto la sabbia”, “non sollevare un polverone”, “lavare i panni
sporchi in casa propria”, che cosa significano se non “non voler vedere” e
quindi non prender coscienza del male di cui pure abbiamo conoscenza, ma di cui
neghiamo o attenuiamo l’esistenza?
Fatte le debite proporzioni, assomigliamo a quei tedeschi o a
quei polacchi intervistati da Gordon
Horwitz (si veda Nell’Ombra della
morte, Marsilio) che chiedeva se non sapevamo proprio nulla di quei campi
di concentramento non lontani dalle loro case. Le risposte furono che si
vedevano dei fumi, si sentivano delle dicerie, ma tutto questo li sollecitava a
verificare quanto accadeva.
Freud chiama questa ipocrisia del linguaggio “negazione (Verneinung)”. Il risultato è una
falsificazione del nostro apparato “cognitivo” – che misconosce ciò che in
verità conosce – “emoziona!” – perché sterilizza i nostri sentimenti
nell’indifferenza -, “morale” – perché esonera da ogni responsabilità – di
“azione” – perché non promuove alcuna risposta a quanto si conosce. Come vede,
la purificazione del linguaggio, prima che pubblica o politica, deve
incominciare dentro di noi.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica 30-marzo-2013
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