Alyssa Nayer Aprì la porta della sua stanza nel motel,
aspettandosi di vedere il fidanzato con il cartone della pizza che era uscito a
comprare. E il fidanzato c’era, ma non era solo. Accanto a lui, in manette,
c’erano due uomini in blu della polizia di Kingston, New York, che la
arrestarono. Ma prima di ammanettarla, dovettero sollevarla dal pavimento dove
Alyssa era collassata, sotto il peso di un’emozione pesante come il pancione di
otto mesi. Poche ore più tardi, nell’infermeria del carcere di Bedford Hills,
metteva al mondo una bambina. Una neonata che sarebbe divenuta una dei tre
milioni e mezzo di piccoli detenuti per la sola colpa di essere figli di madri
dietro le sbarre. Con la crescita continua delle donne nelle carceri americane
(sono il 14 per cento dei detenuti) e l’abbassamento della loro età media,
ormai vicina ai 30 anni, il sistema penitenziario statunitense deve affrontare
un dramma inedito e antichissimo: il fatto che le donne continuino a mettere al
mondo bambini, sia entrando nelle carceri già incinte, sia dentro, negli
incontri cosiddetti “coniugali”. E nessuno sa come trattarle. Ogni Stato ha i
propri regolamenti. Se partorirai in un penitenziario dell’Alabama ai Servizi
sociali che lo terranno in custodia fino a quando tu, mamma, sarai rimessa in
libertà e un tribunale stabilirà se sei in grado di prendertene cura. A new
York, i warden, i direttori dei
penitenziari, permettono alle donne di tenere il bebè, creando non pochi attriti
con altre carcerate costrette a dividere la propria cella con neonati rumorosi
e piagnucolosi. Ma ora si tenta una terza soluzione: nelle nuove carceri
nascono asili nido, sorvegliati dalle guardie ma gestiti dalle detenute. Che
devono provvedere con soldi propri a tutto ciò che non sia il minimo per
l’alimentazione. Le donne fanno i turni per occuparsi dei bambini di tutte,
liberando così per qualche ora le madri dalle estenuanti fatiche della
maternità. I locali sono arredati e colorati esattamente come i normali nidi e
la sicurezza è blanda, per due ragioni: se una donna evadesse, la pena, quasi
sempre di pochi anni legata a reati di traffico di droga o piccoli furti,
raddoppierebbe in durata e severità. In più, quella madre, riacciuffata,
perderebbe il controllo della propria creatura, scaricata agli orfanotrofi
pubblici. Il deterrente dell’amore materno sembra funzionare. Tra le 200mila
mamme carcerate che usufruiscono di asili nido per i figli, soltanto una ha
tentato la fuga, fingendosi la pediatra di servizio. E appena il 17% delle
carcerate torna dentro per recidiva, una frazione dell’esercito dei detenuti
che entrano ed escono. Alyssa, che si era beccata due anni come complice del
suo ragazzo pusher, uscita dal carcere (che disponeva di un asilo nido) dopo
avere scontato solo un anno, ha fatto degli asili addirittura una professione.
Con altre ex detenute mamme che organizzano una piccola società che si occupa
dei nidi nelle prigioni. Con un modesto contributo dallo Stato, cura l’asilo
dove la sua bambina è cresciuta, la porta a giocare con i figli che non possono
uscire dal carcere, assiste le donne, le rassicura, le fa sentire per qualche
ora non criminali che hanno partorito in galera, ma madri come le altre, in
ansia per foruncoli esantemi, rossori, alimentazione. “Nessuna cerca mai di
scappare”, dice, “perché conosciamo tutti i trucchi e molte di loro sanno che
là fuori, oltre il muro, la vita sarebbe molto peggiore per i loro bambini”. Ha
solo un dubbio, Alyssa: che qualche donna incinta disperata si faccia arrestare
e condannare per essere incarcerata qui, e dare ai propri figli ciò che il
mondo dei liberi rifiuta di dare loro.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 22
luglio 2017 -
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