L’Atto Di Sposarsi vorrebbe descrivere una volta per tutte e per sempre la relazione tra due
persone. La realtà e l’esperienza inceneriscono ogni certificato. Due possono,
agli occhi della burocrazia, risultare sposati da anni, ma ciò non toglie che
abbiamo divorziato innumerevoli volte e che abbiano tradito e siano convolati a
nozze con altri. La realtà del “matrimonio” appartiene a quei pochissimi che
sono in grado di provare sentimenti profondi autentici, che segnano per sempre
le tappe significative della vita e che hanno una moralità per concepire una
relazione improntata anche al sacrificio, e non solo al guardarsi e ridere come
due tredicenni. La o non c’è. poi è piuttosto risibile. Il partner a volte non
esiste nemmeno quando è fisicamente presente. Figuriamoci quando non c’è, nel
senso che la realtà è la persona che hai di fronte, qua e ora, e non qualcuno
che è chissà dove. L’essere sposati non può porre limiti allo svilupparsi di
altre relazioni, perché queste non sono una scelta, ma qualcosa che accade,
punto e basta, come i terremoti. Il marito e la moglie non possono in nessun
modo manipolare il rapporto che il coniuge ha con atri, perché non esiste non
esiste libertà in generale e succede solo quello che deve succedere. Mi sembra
che il matrimonio sia soltanto una cosa che si dice per semplicità linguistica
e non una realtà. O forse sì, se intesa come la manfrina di un disturbo
narcisistico personificato. Si può amare senza attaccamento. Anzi, si deve. Lo
dobbiamo a tutti. Giacomo
gzampicc@tiscali.it
Il Suo Sguardo pessimistico sul matrimonio risente
di quella cultura individualista, tipica del nostro tempo, in base alla quale
l’amore non ha altro fondamento che in se stesso, in vista dell’idea di
felicità che ciascuno a suo modo immagina per sé. E questo senza alcun vincolo
sociale dopo che le norme del diritto, le leggi dello Stato, i precetti della
Chiesa si sono progressivamente ritirati dal controllo diretto dell’intimità.
Non che prima le cose andassero meglio, se i che per i poveri l’amore
rispondeva alla necessità di avere una donna che mettesse al mondo i bambini
robusti, sapesse tenere stretti i cordoni della borsa e avesse cura di non fare
andare a male il cibo, mentre per i ricchi l’amore era combinare matrimoni in
modo da accrescere il proprio potere e il proprio patrimonio. Aver delegato
l’amore da tutti questi vincoli è stato un grande passo avanti nell’esercizio della
propria libertà. Se non che anche la libertà, nel frattempo, ha mutato volto.
Non più assenza di vincoli nel compiere le proprie scelte, ma possibilità di
revocare tutte le scelte, per cui si è fatta strada la tendenza ad accedere al
matrimonio solo nella prospettiva della separazione o del divorzio. Quando
l’amore si fonda su se stesso, e si esprime unicamente in vista dell’immagine
che ciascuno si fa della propria felicità (vera o illusoria che sia), nasce
quel tipo d’umo che conosce solo l’amore-passione. Si tratta di un amore
promosso unicamente dalla cieca intensità del sentimento, a partire dal quale
si fanno incaute promesse di assoluta ed eterna fedeltà, oppure, quando il
sentimento non è accolto dall’altro, si dà avvio a una guerra che non conosce
tregua, condotta con le armi acuminate dell’intimità. Guardando dal punto di
vista dell’amore-passione, il matrimonio, per il solo fatto di presentarsi come
una scelta irrevocabile, appare, come dice Tolstoj ne La sonata a Kreutzer, un inferno. Ma la passione, posto che sia
davvero un’esperienza e non una faccenda letteraria che a poco a poco ha
contaminato la psicologia, e poi la musica classica e leggera, e infine la
pubblicità per sedurre gli acquirenti, è davvero l’unico modo in cui può
declinarsi l’amore senza nessun’altra alternativa che non sia o la passione
travolgente o la noia rassegnata? (..). E ancora: “La fedeltà è assurda almeno
quanto la passione, ma dalla passione si distingue per un costante rifiuto di
subire i suoi estri, per un costante bisogno di agre per l’essere amato, per
una costante presa sul reale, che cerca di non fuggire ma di dominare”. Forse
l’amore non è uno “stato” di esaltazione nella passione né di fedeltà nella
noia del matrimonio, ma un “atto” che, invece di abbandonarsi in modo
incondizionato al desiderio, attendendo miracolosamente dal suo soddisfacimento
la felicità, sta alla parola data. Perché non si accontenta di una felicità
passiva offerta dalla passione, ma vuole quella felicità attiva che prende
avvio dalla costruzione di scenari d’amore, dove l’amore non lo si subisce, ma
lo si crea. Solo se si è creatori si può accedere al matrimonio, altrimenti è
meglio evitarlo.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 22 luglio
2017 -
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