University Of
California, Santa
Cruz: un luogo fatato, un campus studentesco in mezzo a una vasta foresta, che
domina uno dei più bei tratti della costa sul Pacifico. Tra i laboratori di
ricerca si aggirano i cerbiatti. La facoltà di agronomia mantiene una fattoria
bio, con mucche che pascolano nei prati, poco distanti dal circolo sportivo
dove professori e studenti hanno palestre e piscina, campi da gioco, piste per
l’atletica leggera. Se rinasco, vorrei studiare in un posto così. Intanto sono
su un ampio prato, sotto un sole a picco e un cielo terso, a godermi uno
spettacolo che mi riempie di orgoglio. E di fiducia. E poi anche paura. Mia
figlia Costanza è giunta alla cerimonia del Commencement, con la consegna
deldiploma di Ph.D., dottorato di ricerca. Sei anni prima l’avevamo raggiunta a
Santa Barbara, in un campus altrettanto bello, per la graduation della prima
laurea. Stavolta la cerimonia mi sembra ancora più solenne. Le università
americane curano molto queste occasioni, c’è una coreografia gloriosa, tanta
musica, belle uniformi riservate alle grandi occasioni: corpo docente e Ph.D.
sfoggiano le tradizionali toghe nere, i nastri coi colori e i simboli delle
facoltà. Dopo l’orgoglio del papà, subentra la fiducia in “questa” America che
ho davanti agli occhi. A occhio direi che meno della metà dei neodottori sono
americani Wasp, cioè di ceppo antico e anglosassone. Gli altri sono immigrati o
figli d’immigrati o stranieri venuti qui a completare il corso di studi: tanti
cinesi e indiani, poi un caleidoscopio di altre nazionalità, dall’Europa
all’America latina. Checché ne dica Donald Trump, ho di fronte a me una delle
forze degli Stati Uniti: la capacità di attirare talenti stranieri, la
meritocrazia, le opportunità che qui vengono offerte più che in altre parti del
mondo. Queso drenaggio di cervelli dall’estero ha contribuito e contribuirà a
dare all’America una marcia in più. Non basta un cattivo presidente a
distruggere questa risorsa. Del resto sulla costa del Pacifico mi sento
lontanissimo da Washington; la California fa di tutto per rimanere ben diversa
dall’America di Trump. Sull’opuscolo stampato per l’occasione dall’università,
accanto al nome di ogni Ph.D, c’è il tema della sua dissertation, l’oggetto di una ricerca che può avere impegnato dai
cinque ai sette anno di lavoro. Anche questa lettura mi riempie di fiducia. È
un elenco di temi complicati, dalla biologia molecolare alla fisica dei
materiali. In molti casi faccio fatica a capire di che si tratti. Ma in quei titoli intravedo una generazione
che investe la sua intelligenza per spostare più avanti le frontiere della
scienza, e costruire un mondo migliore (lo so, non è di moda dichiarare fiducia
nella scienza, eppure io mi ostino a preferire un mondo dove non si muore così
facilmente di parto o di morbillo come nell’800). Gli agi del campus se li
godono poco, questi ragazzi: Costanza metà degli anni di ricerca li ha passati
in una delle aree più povere dell’India, l’Assam; un suo amico li ha trascorsi
in Etiopia. La paura subentra quando sento il discorso del Commencement , una
serie di viatico per questi giovani che esordiscono sul mercato del lavoro. Le
autorità accademiche non hanno chiamato una celebrity come capita a volte,
bensì un giovane uscito da questa stessa università appena cinque anni fa. Fa
un discorso pragmatico, severo, inquietante Descrive un’economia dove dominano
i lavori da free-lance, per definizione precari e insicuri. Un dottorato di
ricerca ti dà un vantaggio di partenza ma non equivale a una polizza
assicurativa. Il vostro lavoro ve lo dovete inventare voi, dice ai suoi
quasi-coetanei. È un mondo tutto in salita, per questa generazione. Anche visto
da quest’angolo magico della California, non ci sono sconti né regali per
nessuno.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 1
luglio 2017 -
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