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martedì 4 luglio 2017

Lo Sapevate Che: Eppure c'è un'America che merita fiducia...



University Of California, Santa Cruz: un luogo fatato, un campus studentesco in mezzo a una vasta foresta, che domina uno dei più bei tratti della costa sul Pacifico. Tra i laboratori di ricerca si aggirano i cerbiatti. La facoltà di agronomia mantiene una fattoria bio, con mucche che pascolano nei prati, poco distanti dal circolo sportivo dove professori e studenti hanno palestre e piscina, campi da gioco, piste per l’atletica leggera. Se rinasco, vorrei studiare in un posto così. Intanto sono su un ampio prato, sotto un sole a picco e un cielo terso, a godermi uno spettacolo che mi riempie di orgoglio. E di fiducia. E poi anche paura. Mia figlia Costanza è giunta alla cerimonia del Commencement, con la consegna deldiploma di Ph.D., dottorato di ricerca. Sei anni prima l’avevamo raggiunta a Santa Barbara, in un campus altrettanto bello, per la graduation della prima laurea. Stavolta la cerimonia mi sembra ancora più solenne. Le università americane curano molto queste occasioni, c’è una coreografia gloriosa, tanta musica, belle uniformi riservate alle grandi occasioni: corpo docente e Ph.D. sfoggiano le tradizionali toghe nere, i nastri coi colori e i simboli delle facoltà. Dopo l’orgoglio del papà, subentra la fiducia in “questa” America che ho davanti agli occhi. A occhio direi che meno della metà dei neodottori sono americani Wasp, cioè di ceppo antico e anglosassone. Gli altri sono immigrati o figli d’immigrati o stranieri venuti qui a completare il corso di studi: tanti cinesi e indiani, poi un caleidoscopio di altre nazionalità, dall’Europa all’America latina. Checché ne dica Donald Trump, ho di fronte a me una delle forze degli Stati Uniti: la capacità di attirare talenti stranieri, la meritocrazia, le opportunità che qui vengono offerte più che in altre parti del mondo. Queso drenaggio di cervelli dall’estero ha contribuito e contribuirà a dare all’America una marcia in più. Non basta un cattivo presidente a distruggere questa risorsa. Del resto sulla costa del Pacifico mi sento lontanissimo da Washington; la California fa di tutto per rimanere ben diversa dall’America di Trump. Sull’opuscolo stampato per l’occasione dall’università, accanto al nome di ogni Ph.D, c’è il tema della sua dissertation, l’oggetto di una ricerca che può avere impegnato dai cinque ai sette anno di lavoro. Anche questa lettura mi riempie di fiducia. È un elenco di temi complicati, dalla biologia molecolare alla fisica dei materiali. In molti casi faccio fatica a capire di che si tratti.  Ma in quei titoli intravedo una generazione che investe la sua intelligenza per spostare più avanti le frontiere della scienza, e costruire un mondo migliore (lo so, non è di moda dichiarare fiducia nella scienza, eppure io mi ostino a preferire un mondo dove non si muore così facilmente di parto o di morbillo come nell’800). Gli agi del campus se li godono poco, questi ragazzi: Costanza metà degli anni di ricerca li ha passati in una delle aree più povere dell’India, l’Assam; un suo amico li ha trascorsi in Etiopia. La paura subentra quando sento il discorso del Commencement , una serie di viatico per questi giovani che esordiscono sul mercato del lavoro. Le autorità accademiche non hanno chiamato una celebrity come capita a volte, bensì un giovane uscito da questa stessa università appena cinque anni fa. Fa un discorso pragmatico, severo, inquietante Descrive un’economia dove dominano i lavori da free-lance, per definizione precari e insicuri. Un dottorato di ricerca ti dà un vantaggio di partenza ma non equivale a una polizza assicurativa. Il vostro lavoro ve lo dovete inventare voi, dice ai suoi quasi-coetanei. È un mondo tutto in salita, per questa generazione. Anche visto da quest’angolo magico della California, non ci sono sconti né regali per nessuno.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 1 luglio 2017 -

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