Come Squali Famelici attratti da succulente prede, i taxi,
o meglio i cab in newyorkese, si
addensavano davanti all’ingresso del Waldorf Astoria. Tra i rabbiosi fischi dei
portieri da hotel di lusso vestiti come ammiragli di flotte inesistenti e le
manovre acrobatiche dei conducenti, piombò un tassì verde della Green Cab
Company per conquistare il proprio posto in fila. Tutto normale, fino a quando
un tassista nel suo Yellow Cab giallo notò un particolare scandaloso. Quel taxi
era guidato da una donna. E per di più da una donna di colore. Indignato da
tanta sfrontatezza, il tassista giallo le tagliò la strada bloccandola, scese
dal suo cab per dirgliene quattro e rimetterla al suo posto, ma aveva sbagliato
avversario. La tassista accelerò di colpo centrando la portiera spalancata del
taxi giallo, scardinandola. “Scusami”, disse la donna al collega, “mi hai
tagliato la strada e non ti ho visto in tempo”. Nessuno la disturbò più. Era il
giugno del 1942, e la dona che aveva osato sfidare la collera di un tassista di
New York e infrangere il regolamento urbano che proibiva ai conducenti
afroamericani di guidare l’auto a Midtown, in centro, era la prima tassista con
licenza nella storia degli Stati Uniti. Si chiamava Gertrude Jeannette e per
sei anni si sarebbe guadagnata da vivere guidando cab nelle strade di Manhattan e cavalcando una motocicletta nel
tempo libero, dopo essere diventata anche la prima donna a ottenere la patente
da motociclista. Soltanto anni dopo Geltrude avrebbe scoperto la propria
vocazione vera, che non era il taxi ma il teatro, diventando una delle più
importanti autrici, registe e impresarie della città. Settantacinque anni dopo,
sarebbe lecito pensare che molte altre Geltrude abbiano seguito il suo esempio,
ma non è così. Quello del tassista resta, negli Usa, un mestiere ancora quasi
esclusivamente maschile e il 99% dei 14 mila Yellow Cab che si incrociano per
le strade della città hanno conducenti uomini. Anche nei nuovi servizi di
privati che servono passeggeri paganti (come Uber) le donne sono una
percentuale minoritaria. Il numero di tassiste sta crescendo in tutto il mondo.
Spuntarono in Giappone, quando la grande recessione degli anni ’90 spinse le mama-san fuori di casa e al volante di un
taxi, per cercare un reddito che sostituisse il salario dei papa-san rimasti a spasso. Si stanno diffondendo in India, in città come
Delhi, dove sono nate cooperative di donne conducenti, nonostante episodi di
violenza fino all’omicidio. Non sono infrequenti in Italia, dove la catena
spesso ereditaria delle licenze comunali si trasmette di padre in figlia, di
marito in moglie. Ma non a New York, bastione del masochismo a tassametro. Le
conducenti cercano, attraverso Internet e qualche App, di crearsi una clientela
di passeggere che preferiscono utilizzare conduttrici: società come She Rides,
She Taxi, Sister Cab. Ma restano ai margini. Si potrebbe azzardare l’ipotesi
che i nuovi arrivati (sbarcati da nazioni come il Pakistan, l’Afghanistan,
l’Iraq, l’Etiopia, i paesi dell’Africa Equatoriale) che oggi guidano i taxi di
New York come primo lavoro, non vedano di buon occhio mogli, sorelle e figlie
sole al volante nei canyon di cemento della città. Molti aspiranti taxi driver
rinunciano per legittima paura, un sentimento comprensibile, ma che
scandalizzerebbe Gertrude Jeannette, la prima tassista degli Usa. Se potesse,
dice che lo farebbe ancora, per divertimento, ma il Municipio di New York City
non le rilascia più il permesso. Non per discriminazione razziale o di genere.
Gertrude ha compiuto da pochi mesi 103 anni.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 1
luglio 2017 -
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