Questa E’ La Storia del mio primo spinello. A 61 anni. Vi
anticipo la moral: si fa sempre in tempo a coprirsi di ridicolo, a tutte le
età. Ho esitato prima di confidarvi l’episodio increscioso, ma bisogna saper
ammettere le proprie débâcle.
Premessa. La mia generazione sperimentò marijuana e altra roba a 18 anni. Io
all’epoca m’iscrivevo al Pci. Erano gli anni di Enrico Berlinguer e tra noi
comunisti regnava una morale puritana. Le canne se le facevano gli altri:
fricchettoni, extra-parlamentari, indiani metropolitani. Noi: sigarette
Nazionali senza filtro, il pacchetto verde di Guccini. Perfino quando feci il
mio primo viaggio in California, nel 1979, riuscii a rimanere vergine. Andai a
viverci, a San Francisco, 17 anni fa. Per raccontare la prima rivoluzione di
Internet che partì sulla West Coast. Certo sentivo la seduzione di quell’altra
San Francisco, non la Silicon Valley ma la città del movimento hippy, capitale
mondiale di tutte le libertà e trasgressioni. Era un fascino storico, uno
sguardo amorevole sulla storia meravigliosa di una città ribelle e creativa. La
studiavo con passione, senza immergermi di persona nei riti iniziatici. Inoltre
andai a vivere in California in piena crociata antifumo. Nel contratto
d’affitto di casa c’era scritto che se mi accendevo una sigaretta arrivava lo
sfratto. Perfino all’aperto era vietato quasi ovunque. Lo spinello, al
contrario, era quasi incoraggiato. Ma dovendomi liberare dalle sigarette mi
pareva strano cominciare a inalare altro. Ancora una volta passai il turno.
Anche oggi che abito a New York vivo una contraddizione. Se voglio concedermi
il piccolo piacere proibito di una sola sigaretta dopo cena, a casa mia, devo
stare attento: i vicini potrebbero denunciarmi. Fumare è considerato un vizio
orrendo, da poveracci. In compenso quando mi alleno per la maratona a Central
Park mi arrivano zaffate di profumo di spinelli (mi dicono che quello aromatico
sarebbe l’hashish e non la marijuana. Non so se sia vero, ma il dettaglio ha
una sua importanza per il seguito). Di recente sono tornato a San Francisco per
l’omaggio ai 50 anni della Summer of Love,
fantastico happening musicale del 1967 che segnò il culmine del fenomeno hippy.
Il museo De Young,nel cuore del Golden Gate Park, ha messo insieme una
splendida collezione dai video dell’epoca (quando centinaia di migliaia di
giovani affluirono a San Francisco “mettendosi i fiori nei capelli”, come
cantava Scott McKenzie) alle copertine dei dischi di Jimi Hendrix. The Grateful
Dead, Jefferson Airplane, Carlos Santana, dall’esplosione di creatività nei
vestiti allo stile pop dei manifesti. Ho visto il documentario restaurato sul
festival di Monterey, con i The Mamas and The Papas che cantavano California Dreamin’ e un finale
travolgente di Ravi Shamkat. Su consiglio di amici sono anche andato a visitare
uno dei dispensari della marijuana, ormai legalizzata, nel quartiere di
Haight-Ashbury. La prescrivono per tutto, dall’emicrania alla depressione (non
soffro né dell’una né dell’altra). Gli amici mi hanno invitato la sera a cena.
Risucchiati nella nostalgia, alla fine hanno cominciato a passarsi uno
spinello. Mi son detto: ora o mai più. Ma non mi avevano preavvertito e nel
frattempo avevo già bevuto del vino. Inoltre quella roba mi sembrava insapore e
inodore, per cui mi sbellicavo dalle risate. Poi mi hanno portato a letto che
non parlavo più. Avrei voluto dirgli che mi sentivo strano. Ma la bocca, lingua
e labbra erano di cartapesta, così secche che non uscivano parole. La mattina
dopo mi sono svegliato tra sguardi di commiserazione. Se avevo aspettato 61
anni, forse c’era una buona ragione. C’è chi può e chi non può permettersi
certe emozioni forti. Ho ringraziato alla memoria, Enrico Berlinguer. Anche di
questo.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 22
luglio 2017 -
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