In Laos una bistecca di tigre cosa 45
dollari. A servirla è un ristorante di lusso nella Zona economica speciale del
Triangolo d’oro, un’area di diecimila ettari che si trova nella provincia di
Bokeo, al confine con la Thailandia, gestita dalla compagnia cinese Kings
Romans Group in accordo con il governo del Paese, Questa zona speciale include
centri commerciali, aree protette, casinò e il Kongs Romans Zoo, uno degli zoo
più grandi dell’Asia, amato dai turisti cinesi per le molte tigri, mansuete al
punto da permettere ai visitatori di entrare nelle gabbie. Il Kings Romans però
non è solo uno zoo, ma anche un centro di allevamento per tigri destinate al
macello Lo hanno scoperto, dopo lunghe indagini, una serie di organizzazioni
internazionali. Wwf. Education for Nature Vietnam, Environmental Investigation
Agency di Londra, International Fund for Animal Welfare e Wildlife Conservation
Society’s Asia Program. “In tutta la Zona economica speciale non si usa solo la
carne delle tigri, vengono venduti liberamente gioielli e preparati medicinali
fatti con le loro ossa, ma anche con quelle di leopardi, rinoceronti ed
elefanti, presenti nell’area” dice Debbie Banks, dirigente della Environmental
Investigation Agency inglese, ong che monitora il rispetto degli accordi
internazionali sulle specie protette. “Il ristorante del Triangolo d’oro non è
certo l’unico in Laos ad avere carne di felino. Non sappiamo esattamente quante
siano le tigri nel Kings Romans Zoo, perché l’amministrazione non fornisce
numeri ufficiali. Ma in tutto il Laos ce ne saranno quasi mille in cattività
per scopi commerciali. E il Laos in Asia non è un’eccezione. Le tigri tenute in
gabbia illegalmente nei Paesi del Sudest, che in buona parte condividono la
sorte di quelle del Laos, sarebbero migliaia. Tra le cinquemila e le settemila
solo in Cina, mentre non ci sono dati certi su quelle in libertà nella
Repubblica popolare. “In Asia il numero di tigri in cattività supera oggi di
gran lunga quello degli esemplari in natura” dice Banks. La denuncia sulla
situazione dei felini nel Laos, lanciata lo scorso autunno a una conferenza
internazionale sulle specie protette, è stata alla base di un’iniziativa di Ed
Royce, presidente della Commissione affari esteri della Camera Usa. Royce nelle
scorse settimane ha segnalato il Laos come “snodo nevralgico del commercio
illegale internazionale di specie protette”. Un sonoro schiaffo diplomatico cui
seguirà una richiesta ufficiale all’Onu di richiamare il Paese al rispetto
della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di
estinzione firmata a Washington nel 1973 e ratificata da 182 Paesi, Laos
incluso. La tigre, il più grande dei felini (arriva a pesare trecento chili) un
tempo abitava in tutta l’Asia, dalla Turchia fino alle coste orientali della
Russia. Nel XX secolo, secondo il Wwf, è scomparsa dal 93 per cento del
territorio che occupava dalle zone del Sudovest e del Sudovest e del Centro
dell’Asia, dall’isola di Giava e Bali e da vaste aree del Sudest. Oggi
rimangono, allo stato selvatico, 3.900 esemplari (cinesi escluse). “Il problema
grave è che allevare tigri e specie rare per scopi commerciali non fa altro che
stimolare la domanda” spiega Grace Ge Gabriel, responsabile per l’Asia dell’International
Fund for Animal Welfare. “non solo. Siamo osservando in Laos, Vietnam e
Thailandia una crescita della caccia di frodo, perché i clienti oggi
preferiscono i prodotti ricavati dalle parti di animali presi in libertà”. “Il
rischio di legalizzare il commercio di tigri d’allevamento è che questo produce
ulteriore richiesta e con essa cresca il bracconaggio” conferma Scott Roberton,
direttore del dipartimento asiatico anti-traffico di specie rare della
fondazione americana Wildlife Conservation Society. La legalizzazione del
commercio è la fine di ogni sforzo legislativo per proteggere le tigri. ”La
priorità è chiudere tutti gli allevamenti di tigri illegali a cominciare dal
Laos” dice Banks. “Per farlo le ong. In Asia devono essere forti e presenti. E
l’Onu e il governo americano devono sostenere la nostra presenza”. Del resto,
otto delle dieci principali organizzazioni ambientaliste presenti nel Sudest
asiatico sono americane.
Simona Porrovecchio – Scienze –Il Venerdì di La Repubblica –
21 luglio 2017 -
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