Era una sera come tante del novembre 1989 a Santa
Ana in California, per Michael Buelna, agente della polizia in pattuglia.
Michael teneva d’occhio specialmente un vicolo cieco e buio dove spacciatori,
clochard e predatori di vittime facili spesso si aggiravano tra i cassoni di
metallo della spazzatura, ma un suono come quello che sentì la sera del 20
novembre 1989 era una novità. Era un flebilissimo lamento, come di un animale
molto ferito o di un umano molto piccolo, e quando l’agente Buelna si fece
strada fra i cassoni scoprì la sorgente del suono: un neonato avvolto nella
carta di giornale, tanto per smentire quelli che dicono che i giornali non
servono e niente. Il neonato parve a lui – ed era – stremato. Buelna,
aspettando l’ambulanza chiamata via radio, gli soffiò in bocca, tenendolo in
vita. Quando i paramedici arrivarono e videro la scena, uno di loro disse: “Nel
rapporto, chiameremo questo bambino Adam”, come il primo uomo della Bibbia.
L’agente Buelna andò in pensione dopo venticinque anni di carriera nella
polizia di Santa Ana. Un pensiero non l’aveva mai abbandonato: ritrovare quel
neonato al qual aveva ridato la vita. Con la tecnica e le relazioni accumulate
in un quarto di secolo, ripercorse tutto il cammino di Adam, dal vicolo
all’ospedale, dall’ospedale all’orfanotrofio pubblico, dall’orfanotrofio
all’adozione. Scoprì l’identità della coppia che lo aveva adottato, nonostante
fosse teoricamente segreta, la patente di guida, la residenza, e un giorno del
maggio scorso suonò alla porta di una piccola casa. Gli aprì un giovane di 28
anni, bruno, robusto, bello e gli disse: “Sono il piedipiatti che ti ha salvato
la vita. Ora finalmente so che quella sera ho fatto un buon lavoro”. Adam lo
abbracciò. “Erano anni che ti cercavo. Tu sei il padre che non ho mai
conosciuto”. Un padre biologico Adam l’aveva, e insieme al vecchio cop, il
piedipiatti in pensione, riuscì a scovarlo e incontrarlo. Ci furono riunioni,
fra lui, i suoi mezzi fratelli e sorelle che il padre naturale aveva avuto
dalla moglie (ben sei), incontri senza rancore o rimproveri, intrisi della
confusa e fatalistica nebbia della vita. Ma nel mosaico del poliziotto e del
bebè al quale aveva soffiato la vita, del padre, dei fratelli e delle sorelle,
mancava una tessera fondamentale: la madre, la donna che aveva gettato via Adam
avvolto in un cartoccio di giornali. Lui e Buelna si misero sulla pista di
questa povera donna senza nome, e dopo settimane di ricerca la trovarono. Si
chiamava Sabrina Fabiola Diaz e quando partorì Adam aveva diciannove anni.
“Vorrei incontrarla, conoscerla, abbracciarla, dirle che non le rimprovero
niente e l’ho perdonata, per fare la pace con lei e con me stesso”, spiegava
Adam al poliziotto. E finalmente spuntò un indirizzo. Sabrina aveva causato un
incidente stradale con un ferito lieve ed era stata arrestata. Adam e Michael
si presentarono all’indirizzo con un mazzo di fiori e una scatola di
cioccolatini. Aprì la porta ua ragazza, diffidente: “Abita qui Sabrina Fabiola
Diaz?”. “Abitava”, rispose lei. “E’ morta?”. “No, non credo”. “Come, non
crede?”. “Non lo s. Un mese fa, dopo l’arresto, spiegò la giovane donna, anche
lei mezza sorella di Adam, “la Migra (gli agenti dell’immigrazione) è venuta a
prenderla”. A causa dell’arresto, le autorità dell’Immigrazione avevano
scoperto che Sabrina Fabiola Diaz era un “illegale” e l’avevano deportata oltre
la frontiera messicana, “Ora sa dove sia?”, insistette Adam. “No, non l’ho più
sentita”, rispose la ragazza. “Ma io voglio dirle che la capisco, farla vivere
senza sensi di colpa, dirle che l’ho perdonata”, continuò lui. “Mi dispiace,
Sabrina non potrà mai più tornare”, chiuse la porta la ragazza. I figli possono
perdonare. Lo Stato, mai.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15
luglio 2017 -
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