Nell’estate Dei Miei 17 anni andai in Bretagna a studiare
francese insieme a un’amica. Stavamo nel pensionato dell’università di Quimper,
un’incantevole cittadina di cui ricordo il fiume, la cattedrale, le crèpes, il
sidro e i balli popolari la sera in piazza. Fu una vacanza bellissima. Una
sera, all’improvviso, durante una festa, si materializzò lui: veniva dai Paesi
Baschi, parlava un francese perfetto, era sudicio e fricchettone quanto
bastava, era in transito per una notte e voleva andare in India. Lo trovai
irresistibile alla prima occhiata. Polverizzò in un istante il mio,
evidentemente già molto fragile, animo bacchettone. E mi ritrovai in un tempo
scandalosamente e indecorosamente breve avvinghiata su un divano a baciare uno
sconosciuto di cui ignoravo tutto. Lui ripartì e mi lasciò per giorni in preda
a sognanti languori. Per fortuna non ho mai saputo il su nome, altrimenti oggi
lo cercherei su Facebook. Fu il primo e unico colo di fulmine della mia vita.
Gli altri amori, quelli veri e duraturi, sono cominciati piano senza il gorgo
dell’urgenza, il rombo assordante d un’esplosione o il corto circuito dei
sensi. Perché gli amori più grandi hanno bisogno di parole, di gesti, di
sguardi, di avvicinamento graduale, di pensieri lenti. Affondano le loro radici
nella testa e nel cuore ben più che nella pancia. Il più delle vote richiedono
tempo e cura per crescere e alzarsi in volo. L’istinto, l’odore, il sapore, i
sensi di certo aiutano nella loro costruzione, ma non bastano. E tutto questo è
universalmente accettato, capito e condiviso. Si può frequentare la stessa
persona per settimane o mesi prima di prendere coscienza che si tratta di lei,
di quella giusta per noi. E nessuno la trova disdicevole, strano e innaturale.
Il sentimento per un figlio, seppur diverso da quello per un tenebroso basco in
transito (o per un economista marxista barese stanziale) è una forma
definitiva, viscerale, incondizionata e inevitabile di amore. Ameremo i nostri
figli sempre, anche se loro smetteranno di amare no, anche se si trasformeranno
in alieni o mostri, anche se saranno lontani e diversi da come li avevamo
sognati. Eppure quando sono diventata madre la prima volta e anche la seconda e
pure, seppure in misura minore, la terza, io non ho avuto alcun colpo di
fulmine. Quando ho incontrato il mio bambino neonato ho visto solo la
profondità abissale e terrificante del suo sguardo accusatorio. Ho percepito l’enormità
di una responsabilità inevitabile, l’abisso della mia inadeguatezza, la paura
dell’ignoto. Per alcune settimane lo scrutavo con sospetto e riverenza, gli
parlavo con il tono impersonale del dovere, lo accudivo con cautela e
soggezione. No, non l’ho amato da subito. Non ne sono stata capace. Non lo
confessavo a nessuno perché mi vergognavo e mi sentivo sbagliata. Ma tutti
attorno a me se ne erano accorti. “È suo figlio, è sano, è bello. Perché non ne
è pazzamente innamorata?”. Già. Perché? Perché non lo conoscevo. Perché era
nuovo. Perché tra l’istinto materno e di conservazione in me ha prevalso il
secondo. Perché non tutte nasciamo madri e non tutte sappiamo innamorarci a
comando. Ho avuto bisogno di tempo, consuetudine e pazienza, come per decidere
che il marxista barese era l’uomo della mia vita. Perché le brecce nei cuori
richiedono impegno. Succede a molte, anche a chi non lo confessa. Basta non
avere paura, non sentirsi sbagliate, non credere alla grande bugia dei
sentimenti innati e naturali, concedersi il lusso dell’attesa. Lo diceva anche
Stefano Benni: Prima poi l’amore arriva.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 22
luglio 2017 -
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