Se questo è un uomo. Un venerdì pomeriggio ho sentito su di me il freddo marmoreo sprigionato
dalla più totale indifferenza umana nei confronti di chi, io e mio marito,
raggiunti da una telefonata in un ipermercato che ci avvisava che il nostro
amato, dorato, fidato cane ci aveva lasciato. A causa dell’anestesia che doveva
servire a placare il suo cervello troppo sollecitato dalle frequenti crisi
epilettiche, questa volta non si è risvegliato. Sono caduta in ginocchio,
urlando, piangendo, chiamando per nome il nostro cane. Mio marito, disperato
come me, cercava di darmi forza abbracciandomi. Siamo rimasti a lungo in questa
condizione di assoluta sofferenza, vicinissimi a noi gli altri uomini, che non
soffrivano, continuavano imperturbabili a scegliere la frutta, incuranti di
noi, del nostro dolore. Intorno a noi: nulla.
Mafalda Albanelli mafaldalbanelli@yahoo.it
Mi Scusi, Ma Non Le
Pare sproporzionata
la sua reazione all’annuncio che il suo cane era morto? E non le pare fuori
misura se non addirittura offensivo, utilizzare il titolo di un libro di Primo
Levi: Se questo è un uomo, equiparando in tal modo l’indifferenza degli
acquirenti del supermercato, che non hanno raccolto e consolato il suo dolore
per la morte del cane, con le atrocità e le morti che avvenivano nei campi di
concentramento con un degrado dell’umano aldilà di ogni immaginazione? Esiste
nei suoi vissuti una gerarchia dei sentimenti? Sa qualcosa dei morti innocenti
in Siria, in Iraq, in Afghanistan, dei milioni di morti in Africa a causa di
pulizie etniche e di massacri indiscriminati? Ha mai rivolto un pensiero a chi
lascia la sua terra e, rischiando la vita che nella sua terra sarebbe già perduta,
viene da noi con quell’unica forza che gli detta la disperazione? Oppure ha
imparato anche lei a chiamare le guerre “missioni di pace”, i massacri “danni
collaterali”, le torture “pressioni fisiche”, le pulizie etniche “trasferimento
di popolazione”, per cui addolcendo la realtà con questi eufemismi, da piangere
resta solo la morte del cane? E per restare da soli, non la commuove la
condizione attuale dei giovani che, a differenza dei loro genitori, non hanno
davanti un futuro che li attragga e li motivi: o la condizione di molti giovani
donne uccise dagli amanti da cui si sono congedate; la condizione dei
senzatetto che mangiano alla mensa dei poveri e dormono sotto i portici; le
condizioni di vita, queste sì disumane, a cui sottostanno per 15 o 20 euro a
giorno quegli immigrati che raccolgono frutta e pomodori che noi acquistiamo
nei supermercati senza, non dico svenire, ma neppure dedicare a loro un
pensiero? L’impressione che la sua lettera mi suscita approda a questa domanda:
ma lei che rapporto ha con la realtà? Come la percepisce? Come la gran parte di
noi o in una modalità così distante da trovarsi a sua insaputa del tutto
isolata del tutto isolata, non per colpa degli altri, ma perché ciò per cui si
commuove è per gli altri del tutto sproporzionato e quindi incomprensibile. Non
tutti vediamo la realtà allo stesso modo, problema percettivo o è in malafede.
Le spiego tutto con una storia. Stanley Cohen, professore di sociologia a
Londra, quando aveva 12 anni viveva a Johannesburg, in Sudafrica. Una notte
d’inverno, mentre se ne stava al caldo nel suo letto, vide dalla finestra che
un nero adulto, al seguito della sua famiglia trasferitasi per il lavoro del
padre, era fuori all’aperto, con il bavero del cappotto rialzato, strofinandosi
le mani per il freddo. L’indomani Stanley chiese alla madre la ragione per cui
quell’uomo nero dormiva fuori al freddo. La risposta della madre fu: “Bambino
mio, sei troppo sensibile”. La cosa finì lì. Ma qualche anno dopo il ricordo
riemerse, e Stanley, ormai studente di Sociologia a Oxford, incominciò a
chiedersi: “I miei genitori vedevano quello che io vedevo o vivevano in un
altro universo percettivo, dove spesso gli orrori dell’apartheid erano
invisibile e la presenza fisica della gente di colore sfuggiva alla loro consapevolezza?
Oppure vedevano esattamente ciò che vedevo io, ma semplicemente non gliene
importava nulla o non ci trovavano niente di sbagliato? Quando la percezione
della realtà è così distorta, non c’è più speranza di sanare qualcosa dei mali
del mondo, perché se il nostro sentimento non è all’altezza di quanto sta
accadendo intorno a noi, che cosa può impedire la ripetizione di quelle
terribili cose a cui sopra abbiamo accennato? A questo punto può usare una
ripetizione di Heidegger: “Il terribile è già accaduto”, perché quando
s’inceppa il nostro sentimento dell’orrore, della partecipazione e della
compassione che non va oltre ciò che ci è vicino o che ci riguarda, a quel
punto si perde anche il sentimento della responsabilità per tutto ciò che non
rientra nella cerchia ristretta delle nostre intime cose.
umbertogalimberti@repubblica.it
- Donna di La Repubblica – 24 giugno 2017 -
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