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lunedì 24 luglio 2017

Lo Sapevate Che: No, la democrazia non è un concerto rock...



Vi sto Dando un sacco di delusioni. Mi trovate freddo, assente, distante. Presuntuoso e arrogante. Almeno, chi fra voi frequenta assiduamente social media, da Facebook a Twitter, può vedermi così. In quei luoghi “esisto” ma mi esprimo raramente, dialogo poco. Sono in ritardo di mesi nel rispondere alle domande, reagire ai commenti. Un lettore mi si è avvicinato alla fine del mio spettacolo Trump Blues e mi ha rimproverato, con affetto, richiamandomi all’ordine: non aggiorno abbastanza neppure il blog sul sito di Repubblica. Vi devo delle spiegazioni. La più semplice riguarda il mio calendario di lavoro, tra i vertici internazionali, viaggi al seguito di un orrido presidente, più una spruzzatina di vacanze mescolate coi festival estivi in Italia. Ma c’è un’altra ragione, meno occasionale, più meditata. Il tempo della vita corre via velocemente, seno il bisogno di fare delle scelte. Preferisco staccare la spina, spegnere l’audio per isolarmi dal frastuono. Così posso rallentare. Guardarmi attorno. Fare un viaggio senza una meta spasmodicamente urgente. Incontrare persone nuove, fare conoscenze impreviste. Immergermi nella lettura o rilettura di un libro lungo, da assaporare con lentezza (quest’estate Guerra e pace di Tolstoj, la guerra del Peloponneso di Tucidide e una serie di saggi americani sulla “riscoperta della geografia”, che un giorno vi racconterò). Invece dei social media, preferisco dialogare con voi di persona: ai dibattiti sui miei libri, nel dopo-teatro, ai festival. C’è più calore, sincerità, onestà e anche rispetto dell’altro, quando ci fissiamo negli occhi e ci confidiamo le nostre preoccupazioni più gravi, le rabbie o le speranze. Le discussioni fra noi umani in carne e ossa, non mediate da uno schermo né dal display di uno smartphone, sono un costume civile, un rito che rende viva l’idea della polis, la comunità di cittadini attenti, responsabili, partecipativi. Il contrario dello lobbismo, malattia della politica contemporanea. Uno studioso americano, Eitan D. Hersh, ha coniato questo neologismo per descrivere la caricatura della democrazia partecipativa. Le democrazie muoiono soffocate non solo dal lobbismo dei ricchi e potenti, ma anche da tutti noi quando scambiamo la partecipazione con un hobby, divertente e gratificante, mentre è per forza noiosa, esigente e lenta. Ci siamo illusi che la democrazia fosse uno sport o un concerto rock, qualcosa di emozionante, struggente, meraviglioso. E assai poco faticoso. C’è chi crede di partecipare perché si guarda tutti i talk show e fa il tifo come alle partite di calcio. Con l’avvento dei social media “fare politica” è diventato sinonimo di blaterare su Facebook o su Twitter, vuoi per rassicurarci con chi la pensa come noi, vuoi per insultare e aggredire chi è di parere diverso. A New York frequento un amico più giovane molto più famoso di me, il quale sui social media investe una grossa parte del suo tempo e della sua attenzione. Certe sere lo trovo angosciato per l’ostilità, le ingiurie, le calunnie costanti. Investe molte energie per difendersi. O per cercare di capire perché così tanti ce l’hanno con lui, con un’animosità spaventosa. Forse, al suo livello di celebrità e con una audience piena di giovanissimi, non c’è modo di fare marcia indietro. Io mi chiedo chi passa le giornate sui social media, ha ancora tempo e voglia di leggere un libro insieme a me? Di scegliere la profondità, invece della visibilità? Finché posso coltivo questo piccolo lusso personale. Taccio per un po'. Rendo rare le mie tracce digitali. Scompaio dagli schermi radar “social”. Come un pilota che non parla più con la torre di controllo per gustare un piacere antico: la navigazione a vista, decifrando le carte geografiche.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15 luglio 2017 -

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