Vi sto Dando un sacco di delusioni. Mi trovate
freddo, assente, distante. Presuntuoso e arrogante. Almeno, chi fra voi
frequenta assiduamente social media, da Facebook a Twitter, può vedermi così.
In quei luoghi “esisto” ma mi esprimo raramente, dialogo poco. Sono in ritardo
di mesi nel rispondere alle domande, reagire ai commenti. Un lettore mi si è
avvicinato alla fine del mio spettacolo Trump
Blues e mi ha rimproverato, con affetto, richiamandomi all’ordine: non
aggiorno abbastanza neppure il blog sul sito di Repubblica. Vi devo delle spiegazioni. La più semplice riguarda il
mio calendario di lavoro, tra i vertici internazionali, viaggi al seguito di un
orrido presidente, più una spruzzatina di vacanze mescolate coi festival estivi
in Italia. Ma c’è un’altra ragione, meno occasionale, più meditata. Il tempo
della vita corre via velocemente, seno il bisogno di fare delle scelte.
Preferisco staccare la spina, spegnere l’audio per isolarmi dal frastuono. Così
posso rallentare. Guardarmi attorno. Fare un viaggio senza una meta
spasmodicamente urgente. Incontrare persone nuove, fare conoscenze impreviste.
Immergermi nella lettura o rilettura di un libro lungo, da assaporare con
lentezza (quest’estate Guerra e pace di Tolstoj, la guerra del Peloponneso di
Tucidide e una serie di saggi americani sulla “riscoperta della geografia”, che
un giorno vi racconterò). Invece dei social media, preferisco dialogare con voi
di persona: ai dibattiti sui miei libri, nel dopo-teatro, ai festival. C’è più
calore, sincerità, onestà e anche rispetto dell’altro, quando ci fissiamo negli
occhi e ci confidiamo le nostre preoccupazioni più gravi, le rabbie o le
speranze. Le discussioni fra noi umani in carne e ossa, non mediate da uno
schermo né dal display di uno smartphone, sono un costume civile, un rito che
rende viva l’idea della polis, la
comunità di cittadini attenti, responsabili, partecipativi. Il contrario dello
lobbismo, malattia della politica contemporanea. Uno studioso americano, Eitan
D. Hersh, ha coniato questo neologismo per descrivere la caricatura della
democrazia partecipativa. Le democrazie muoiono soffocate non solo dal lobbismo
dei ricchi e potenti, ma anche da tutti noi quando scambiamo la partecipazione
con un hobby, divertente e gratificante, mentre è per forza noiosa, esigente e
lenta. Ci siamo illusi che la democrazia fosse uno sport o un concerto rock,
qualcosa di emozionante, struggente, meraviglioso. E assai poco faticoso. C’è
chi crede di partecipare perché si guarda tutti i talk show e fa il tifo come
alle partite di calcio. Con l’avvento dei social media “fare politica” è
diventato sinonimo di blaterare su Facebook o su Twitter, vuoi per rassicurarci
con chi la pensa come noi, vuoi per insultare e aggredire chi è di parere
diverso. A New York frequento un amico più giovane molto più famoso di me, il
quale sui social media investe una grossa parte del suo tempo e della sua
attenzione. Certe sere lo trovo angosciato per l’ostilità, le ingiurie, le
calunnie costanti. Investe molte energie per difendersi. O per cercare di
capire perché così tanti ce l’hanno con lui, con un’animosità spaventosa.
Forse, al suo livello di celebrità e con una audience piena di giovanissimi,
non c’è modo di fare marcia indietro. Io mi chiedo chi passa le giornate sui
social media, ha ancora tempo e voglia di leggere un libro insieme a me? Di
scegliere la profondità, invece della visibilità? Finché posso coltivo questo
piccolo lusso personale. Taccio per un po'. Rendo rare le mie tracce digitali.
Scompaio dagli schermi radar “social”. Come un pilota che non parla più con la
torre di controllo per gustare un piacere antico: la navigazione a vista,
decifrando le carte geografiche.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15
luglio 2017 -
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