È con una certa
emozione che si
ritrova un amico morto nei suoi scritti. Anzi qualcuno che è stato più di un
amico. Non è una sensazione tanto strana per chi fa il nostro mestiere. Il cui
prodotto è simile alla traccia effimera dei gasteropodi. Quando la ritrovi
decifrabile nell’ombra di un archivio, sui giornali ingialliti o in
un’antologia di articoli dissepolti, quella traccia fa riemergere i ricordi, e
con i ricordi i volti, i personaggi con i quali si sono condivisi tanti
avvenimenti che non hanno fatto la storia, ma la cronaca. Con Enzo Forcella è diverso. Lui era molto di più. Più che un giornalista politico o uno
storico era uno scrittore che in molte sue opere, articoli o libri, dava
l’impressione di voler decifrare un’immagine opaca o di rispondere a una
domanda esistenziale. Gli obblighi della professione potevano apparire in lui
una tormentata o comunque subita sovrastruttura. Anche se è stato uno dei più
grandi giornalisti politici e non soltanto della sua generazione, e ha lasciato
una forte impronta nel mestiere, con i suoi scritti e varando trasmissioni
radiofoniche come Prima pagina e Terza pagina, in cui si riconosce ancora la
sua traccia culturale. Non è facile ricordarlo senza enfasi per adeguarsi al
personaggio che non alzava mai la voce. Si immergeva, non senza soffrire, nella
cosiddetta vita reale, commentando giorno per giorno, per lunghi anni, la
grande e piccola storia. Con una lucidità che non venne mai meno, anche grazie
al distacco critico. Detestava i luoghi comuni e le certezze. Il dubbio lo
accompagnava nel suo mondo popolato di interrogativi. Pietro Citati ha parlato
di fantasmi e ossessioni. Pietro era un grande e privilegiato amico di Enzo. Un
dialogo puntuale li ha uniti per anni. L’Enzo Forcella
trentenne ritrovato
leggendo suoi scritti di allora è un giovane che non sembra inseguito da
ossessioni e fantasmi. Non ancora. Oppure non ci se ne accorge. È un
intellettuale di profonda cultura immerso nella politica e nei meccanismi del
potere del tempo che descrive con stile cristallino senza lasciarsi coinvolgere.
Mantiene la distanza. Ad arricchire l’analisi è la narrazione, il racconto, che
sempre l’accompagna. La psicologia è la lente attraverso la quale Enzo vede la
società politica. La psicoanalisi sarà poi il ricorso dell’uomo segnato dalle
cicatrici delle inevitabili ambiguità della vita e del mestiere. Ambiguità
banali per molti di noi, non per lui che le viveva con un senso di colpa. Il
laico, laicissimo, Enzo è negli articoli giovanili l’osservatore solitario che
sarà per tutta la vita. Anche quando la vita pubblica lo coinvolgerà,
affidandogli responsabilità con gli annessi compromessi, colmandolo o
ferendolo. Mi riferisco adesso agli articoli apparsi su Il Mondo di Mario
Pannunzio negli anni Cinquanta, e raccolti in “Budda a Firenze”, volume curato da
Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, e pubblicato da Nino Aragno Editore.
L’antologia appare diciotto anni dopo la morte, che portò via veloce Enzo a
settantotto anni, quando aveva i cassetti della scrivania pieni di appunti. E
in uno di quei cassetti c’era, ormai praticamente finita, “La Resistenza in
convento”, prezioso libro di storia patria ultimato quanto Enzo, si può dire,
era già entrato nella morte. Sottovoce, come era nel suo stile, vi racconta,
anche con episodi comici, gli eventi drammatici nella Roma del 1943 e del 1944.
“Budda a Firenze” è Aldo Moro al VII Congresso annuale della Democrazia
cristiana, che tenne dal 23 al 28 ottobre 1959. Enzo Forcella descrive il
quarantatreenne Moro come un uomo colto, gentile, triste, esangue con la stanca
saggezza di un vecchio e la commozione facile, sino alle lacrime, quando invoca
la comprensione degli ex compagni di corrente per lo spiacevole ruolo che gli
tocca svolgere. Quel che il leader democristiano deve fare digerire
all’assemblea nell’intervento di quattro ore è “l’accettazione degli opposti”.
Quella che i monaci buddisti, scrive Enzo, usano nei loro esercizi spirituali
per assuefarsi a superare le strettoie della logica convenzionale. E la Dc,
spiega in sostanza Moro, collabora con le destre ma è di centro sinistra. I fascisti non sono democratici, ma la
collaborazione con i fascisti è un atto di responsabilità democratica. Sarebbe
bello se i socialisti collaborassero con i democristiani, ma i democristiani
non possono collaborare con i socialisti. Questa la sintesi sottile, sferzante,
che Enzo fa del sofferto lamento del leader dc, anno dopo martire della
democrazia. È una delle tante cronache raccolte nel volume che ci fa rivivere
un amico al quale dobbiamo molto.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 2 luglio 2017
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