Ho conosciuto il nonno di Kim Jong-un, la Guida
suprema che dall’estremità dell’Asia inquieta il mondo con le sue armi
nucleari. In questa affermazione c’è una dose di vanità. <un cronista non
poteva conoscere, familiarizzare con Kim il-sung, il “presidente eterno” della
Repubblica nordcoreana. Poteva incontrarlo, osservarlo, ascoltarlo. Ed è quel
che è accaduto quando sono stato suo ospite. Era imponente. Massiccio. Aveva
l’andatura di un uomo che ha faticato nei campi. Ma nel fiume di parole che ti
rovesciava addosso c’era di tutto: la sua versione della politica, della
filosofia, della storia, della guerra, dell’economia. La “juché”,
l’autosufficienza, era alla base della sua ideologia. Chi gli stava di fronte
era ridotto in silenzio. Non credo sopportasse le domande. Non certo quelle di
un cronista straniero, di stampo capitalista, quale ero in quella primavera del
1980, in cui capitai a Pyongyang, al seguito di Entico Berlinguer in visita
ufficiale nella Corea del Nord. Non esistevano personaggi più diversi.
Berlinguer era riservato, non andava mai fuori dalle righe. Né un gesto né un aggettivo
di troppo. A prima vista Kim il –sung mi sembrò un eroe di Rabelais più che di
Orwell. Forse c’era in lui un po' dei due: di Gargantua e del Grande fratello.
Eccedeva in tutto: nel parlare, nel ridere, nel manifestare simpatia o
esprimere ostilità. Divorava più che mangiare. Eppure l’italiano, il più
aristocratico dei leader marxisti di allora, e Kim il-sung, immerso in un culto
della personalità senza limiti, avevano qualcosa in comune: l’indifferenza nei
confronti delle prepotenti, grandi capitali comuniste. Da qui una strana,
senz’altro contenuta, imbarazzata simpatia, tra le romane Botteghe Oscure e
Pyongyang. Investito di una carica
“eterna”, Kim il-sung è r cistestato presidente anche dopo la morte. Morte
probabilmente dovuta all’enorme ciste sul collo, e che i fotografi ufficiali
nascondevano con cura. Ma era ben in vista quando fummo invitati a cena nel
palazzo presidenziale. E Kim il-sung era a pochi metri, al tavolo in cui
Berlinguer occupava il posto d’onore. Era al potere da trentacinque anni e ne
aveva ancora quattordici da vivere. Aveva alle spalle un passato non del tutto
a torto definito leggendario dalla propaganda del regime. Secondo la quale
anche il cinguettio degli uccelli raccontava le sue eroiche imprese. Era stato
guerriero, cospiratore. Fondatore di un comunicsmo singolare, che sembrava e
sembra confondersi con una dinastia familiare. Gli è succeduto il figlio Kim
Jong-il, e adesso è al potere il nipote Kim Jong-un. Una monarchia comunista.
Afferrando a Pyongyang provenienti da Pechino, in quella lontana primavera si
aveva l’impressione di essere capitati in un grande studio cinematografico: in
una cinecittà estremorientale in cui era stata costruita una capitale comunista
ideale. Ai piedi dell’aereo ci aspettava una piccola folla sorridente che
sventolava mazzi di fiori rigidi, di colori strani. Osservati da vicino ci si
accorgeva che erano di plastica. L’abbigliamento degli uomini era uniforme:
camicia bianca, cravatta e scarpe di cuoio lucidissime. Quello delle donne era
altrettanto uniforme, era un costume tradizionale coreano. I bambini
indossavano divise scolastiche, rosse e azzurre, ispirate da modelli
scandinavi. La folla di comparse che applaudiva la nostra comitiva diretta in
città aveva gli stessi abiti e gli stessi mazzi di fiori finti. Le finestre
affacciate sulla strada erano tutte addobbate con tendine dello stesso colore e
tutte geometricamente accostate. Sul fiume accanto all’albergo passavano
puntuali giovani sciatori. Lo sci acquatico sembrava un passatempo nazionale.
In un cantiere edile un’orchestra accompagnava con musiche marziali il lavoro
degli operai. Dopo le disciplinate manifestazioni di giubilo, le strade si sono
svuotate. Non c’erano passanti e automobili, ma vigili scattanti regolavano il
traffico inesistente. Nella capitale che sembrava finta non mancavano piccoli
parchi, laghetti, campi da gioco. Dove si aggirava qualche essere umano, che
sembrava in servizio comandato tanto era composto. La sera della cena
ufficiale, quando entrammo nel salone, cui si accedeva da più porte presidiate
da ragazze in minigonna che porgevano vassoi ricolmi di sigarette, almeno
trenta tavoli, con candelabri accesi, erano già occupati. I maschi in abito
scuro, le femmine in abito lungo. All’improvviso una parete si spalancò e
apparve un palcoscenico, sul quale un folto e potente coro intonò “Bella ciao”.
Lo confesso, alcuni di noi si commossero, anche se eravamo delusi per non aver
visto la Corea del Nord.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 16 luglio 2017
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