Nelle frequenti dispute tra praticanti
della movida e cittadini insonni (l’ultima a Napoli), impressiona la totale
impraticabilità di una soluzione di compromesso. Ovvero stiamo al bar fino alle
quattro bevendo a garganella, però senza sbraitare (esiste anche un’ubriachezza
non molesta). Se ne deduce che un ingrediente essenziale della movida è il
fracasso (una parte di Martini e una di decibel, due gocce di angostura).
Questo rimanda al più vasto problema – acuto in estate – del diritto al
silenzio, uno dei più negati del nostro evo. Talmente negato che se al
ristorante chiedete al vicino di tavola di urlare di meno, o entrando in un
negozio scongiurate la commessa di abbassare il volume della musichetta, la
prima reazione è di stupore: il rumore non è inteso come un problema, dunque il
silenzio non è inteso come un diritto. Gli urlatori si sentono rimproverati per
una colpa che non avvertono. Spesso si offendono. L’unica speranza, vivendo in
una società di mercato. È che nasca una imprenditoria del silenzio: un
sovraprezzo per mangiare e bere e parlare in luoghi silenziosi, come nei club
inglesi. Quanto al silenzio gratuito, o avete vinto il concorso per guardiano
del faro o ve lo potete scordare. È una società classica, questa.
Michele
Serra - >L’amaca – La Repubblica – 2 luglio 2017 -
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