Ma che c’entra Matteo
con Enrico?
Ai giovani renziani che
guidano il Pd interessa poco la figura del leader Pci.
Eppure sapere come andò
serve a capire la crisi della sinistra
Dopo aver visto il docu-film di Walter Veltroni su Enrico
Berlinguer, se lo può e magari se lo deve chiedere chiunque abbia qualche
annetto sulle spalle, ma forse pure un ragazzo che all’epoca non era neanche
nato: che cosa diavolo è successo, come ha fatto la “bella politica” di allora
a trasformarsi nella politica un po’ mesta, un po’ comica e un po’ oscena di
questi anni? E che cosa lega il Pci di allora al Pd di oggi, il Pd di Matteo
Renzi? Una risposta univoca ovviamente, non c’è, anzi, ce ne possono essere
centomila, perché nel frattempo è cambiato il mondo. Meglio, allora, serrare il
discorso sulla sinistra italiana, e provarsi a formulare qualche altro
interrogativo. Premettendo, anche se non ce ne dovrebbe essere bisogno, che la
stima, l’affetto e – almeno per chi scrive – la nostalgia per Berlinguer, per
il suo modo di stare al mondo e di intendere la politica, sono del tutto fuori
discussione.
Se Gli Si Porta Davvero
Rispetto, non si può
parlare di Berlinguer senza riconoscergli di essere stato orgogliosamente
comunista, dalla prima giovinezza ai suoi ultimi giorni. Un comunista italiano,
ovviamente: e quindi – non è una parolaccia – un togliattiano. Fu soprattutto
in nome del suo togliattismo per così dire connaturato che venne preferito a
Giorgio Napolitano(correva l’anno 1969) come vicesegretario, e quindi come
futuro erede di Luigi Longo. E di ispirazione ortodossamente togliattiana,
quasi un “heri dicebamus”, fu la proposta del compromesso storico (1973),
rappresentato come la ripresa di una politica (“Non si governa senza e contro i
comunisti”) malauguratamente interrotta dalla rottura dell’unità antifascista
nel 1947.
Quando, esaurita la stagione della solidarietà nazionale,
virò a sinistra, Napolitano lo criticò sull’Unità (1981) lamentando
l’appannamento, nella linea del partito, della lezione di Togliatti: e lui ne
fu amareggiato. Può darsi, come ha sostenuto Massimo D’Alema, che a spingere
Berlinguer a decretare l’autoisolamento del Pci in nome di una questione morale
incarnata in ultima analisi da Bettino Craxi sia stata una preveggente
intuizione della catastrofe che stava per abbattersi sul sistema dei partiti;
che abbia coscientemente cercato, cioè, di far attraversare il Mar Rosso al suo
esercito, costituendolo come una sorta di riserva di massa della Repubblica.
Può Darsi. Ma è certo che alla fine di questa
lunga marcia il secondo Berlinguer, quello dell’alternativa democristiana e del
governo degli onesti, togliattamente sperava di ritrovare – proprio come il
primo, quello del compromesso storico – una Democrazia cristiana, se possibile
finalmente emendata dai propri peccati. E fu anche in nome di questa speranza
che si erse come una sorta di Antemurale nei confronti dei processi di
modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana che Craxi e il
craxismo a modo loro interpretavano, o pretendevano di interpretare.
Come andò a finire è noto. Bisognerà pure domandarsi perché
il berlinguerismo non sopravvisse a Berlinguer. Perché non gli sopravvisse
nemmeno il Pci, entrato alla sua morte in una lunga fase di stagnazione cui
cercò di sottrarsi solo fuori tempo massimo, a ridosso del Muro che veniva giù.
E perché politicamente parlando, non gli siano sopravissuti nemmeno i
postcomunisti che bene o male erano riusciti – anche grazie all’eredità di un
leader come lui, che pure molto difficilmente avrebbe cambiato nome al Pci – a
non finire intrappolati sotto le macerie di quel Muro.
Ancora un anno fa si strologava su come il Pd fosse destinato
a restare cosa loro in eterno, adesso il governo e per quel che conta il
partito sono in mano a Matteo Renzi e ai suoi trentenni, che delle storie della
sinistra non sanno e non vogliono sapere un bel nulla, non solo per motivi
generazionali. E Berlinguer lo trattano, quando lo trattano, come un innocuo
santino.
Gli Appassionati Di
Storia contro
fattuale potrebbero chiedersi se sarebbero stati meno grami i destini della
sinistra qualora i comunisti si fossero incamminati su una strada diversa,
prima celebrando la loro Bad Godesberg (invece di proclamarsi, proprio mentre
celebravano lo “strappo” con Mosca, fieramente anche se originalmente
leninisti); poi criticando sì, ma per sfidarli, incalzarli e condizionarli,
Craxi e i suoi, invece di rappresentarli
come degli avventurieri pericolosi per la democrazia. Noi, più prosaicamente,
possiamo solo prendere atto che così non è stato. Anche perché Berlinguer, e
con lui la sua giovane guardia, all’epoca più berlingueriana di lui – che dopo
l’intermezzo di Alessandro Natta ne ereditò la leadership, ma certo non la
concezione alta, nobile e tragica della politica – a questa possibilità
fierissimamente si oppose.
Scalda il cuore, il ricordo delle passioni di Enrico e del
suo tempo. Ma, se vogliamo capire perché oggi quelle passioni sono spente,
tutto questo non dovremmo metterlo tra parentesi.
Paolo Franchi – L’Espresso – 27 marzo 2014
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