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martedì 1 aprile 2014

Lo Sapevate Che: Attualità...

  
Ma che c’entra Matteo con Enrico?

Ai giovani renziani che guidano il Pd interessa poco la figura del leader Pci.
Eppure sapere come andò serve a capire la crisi della sinistra

Dopo aver visto il docu-film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer, se lo può e magari se lo deve chiedere chiunque abbia qualche annetto sulle spalle, ma forse pure un ragazzo che all’epoca non era neanche nato: che cosa diavolo è successo, come ha fatto la “bella politica” di allora a trasformarsi nella politica un po’ mesta, un po’ comica e un po’ oscena di questi anni? E che cosa lega il Pci di allora al Pd di oggi, il Pd di Matteo Renzi? Una risposta univoca ovviamente, non c’è, anzi, ce ne possono essere centomila, perché nel frattempo è cambiato il mondo. Meglio, allora, serrare il discorso sulla sinistra italiana, e provarsi a formulare qualche altro interrogativo. Premettendo, anche se non ce ne dovrebbe essere bisogno, che la stima, l’affetto e – almeno per chi scrive – la nostalgia per Berlinguer, per il suo modo di stare al mondo e di intendere la politica, sono del tutto fuori discussione.
Se Gli Si Porta Davvero Rispetto, non si può parlare di Berlinguer senza riconoscergli di essere stato orgogliosamente comunista, dalla prima giovinezza ai suoi ultimi giorni. Un comunista italiano, ovviamente: e quindi – non è una parolaccia – un togliattiano. Fu soprattutto in nome del suo togliattismo per così dire connaturato che venne preferito a Giorgio Napolitano(correva l’anno 1969) come vicesegretario, e quindi come futuro erede di Luigi Longo. E di ispirazione ortodossamente togliattiana, quasi un “heri dicebamus”, fu la proposta del compromesso storico (1973), rappresentato come la ripresa di una politica (“Non si governa senza e contro i comunisti”) malauguratamente interrotta dalla rottura dell’unità antifascista nel 1947.
Quando, esaurita la stagione della solidarietà nazionale, virò a sinistra, Napolitano lo criticò sull’Unità (1981) lamentando l’appannamento, nella linea del partito, della lezione di Togliatti: e lui ne fu amareggiato. Può darsi, come ha sostenuto Massimo D’Alema, che a spingere Berlinguer a decretare l’autoisolamento del Pci in nome di una questione morale incarnata in ultima analisi da Bettino Craxi sia stata una preveggente intuizione della catastrofe che stava per abbattersi sul sistema dei partiti; che abbia coscientemente cercato, cioè, di far attraversare il Mar Rosso al suo esercito, costituendolo come una sorta di riserva di massa della Repubblica.
Può Darsi. Ma è certo che alla fine di questa lunga marcia il secondo Berlinguer, quello dell’alternativa democristiana e del governo degli onesti, togliattamente sperava di ritrovare – proprio come il primo, quello del compromesso storico – una Democrazia cristiana, se possibile finalmente emendata dai propri peccati. E fu anche in nome di questa speranza che si erse come una sorta di Antemurale nei confronti dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana che Craxi e il craxismo a modo loro interpretavano, o pretendevano di interpretare.
Come andò a finire è noto. Bisognerà pure domandarsi perché il berlinguerismo non sopravvisse a Berlinguer. Perché non gli sopravvisse nemmeno il Pci, entrato alla sua morte in una lunga fase di stagnazione cui cercò di sottrarsi solo fuori tempo massimo, a ridosso del Muro che veniva giù. E perché politicamente parlando, non gli siano sopravissuti nemmeno i postcomunisti che bene o male erano riusciti – anche grazie all’eredità di un leader come lui, che pure molto difficilmente avrebbe cambiato nome al Pci – a non finire intrappolati sotto le macerie di quel Muro.
Ancora un anno fa si strologava su come il Pd fosse destinato a restare cosa loro in eterno, adesso il governo e per quel che conta il partito sono in mano a Matteo Renzi e ai suoi trentenni, che delle storie della sinistra non sanno e non vogliono sapere un bel nulla, non solo per motivi generazionali. E Berlinguer lo trattano, quando lo trattano, come un innocuo santino.
Gli Appassionati Di Storia contro fattuale potrebbero chiedersi se sarebbero stati meno grami i destini della sinistra qualora i comunisti si fossero incamminati su una strada diversa, prima celebrando la loro Bad Godesberg (invece di proclamarsi, proprio mentre celebravano lo “strappo” con Mosca, fieramente anche se originalmente leninisti); poi criticando sì, ma per sfidarli, incalzarli e condizionarli, Craxi  e i suoi, invece di rappresentarli come degli avventurieri pericolosi per la democrazia. Noi, più prosaicamente, possiamo solo prendere atto che così non è stato. Anche perché Berlinguer, e con lui la sua giovane guardia, all’epoca più berlingueriana di lui – che dopo l’intermezzo di Alessandro Natta ne ereditò la leadership, ma certo non la concezione alta, nobile e tragica della politica – a questa possibilità fierissimamente si oppose.
Scalda il cuore, il ricordo delle passioni di Enrico e del suo tempo. Ma, se vogliamo capire perché oggi quelle passioni sono spente, tutto questo non dovremmo metterlo tra parentesi.
Paolo Franchi – L’Espresso – 27 marzo 2014


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