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mercoledì 4 ottobre 2017

Lo Sapevate Che: Se la Social Therapy è affidata a un cucciolo...



“Si Figuri, I Cani possono entrare, è certa gene che dovrebbe restare fuori!”. O, in alternativa: “Meglio un cane che un bambino”. Queste sono le risposte cui ho cercato, senza successo. Di abituarmi da quando ho preso un cucciolo e timidamente chiedo il permesso di entrare con lui in ristoranti, bar ed esercizi commerciali di vario genere. Premetto, nel caso fosse necessario, che amo i cani più di tutto da quando Carlo, il carlino che ho persino ringraziato nel mio primo libro, è entrato nella mia vita undici anni fa. Senza famiglia io, da allora lui è diventata la mia, seguendomi in ogni città in cui ho vissuto. E quando un anno fa ha rischiato di morire, per un’operazione errata in una clinica veterinaria di Livorno, ho lottato in ogni modo per avere giustizia, purtroppo invano. Arrivato il nuovo cucciolo, ero però impreparata allo status di amica di un quattrozampe nell’Italia 2017: padrona non si può più dire, no è politically correct, rimanda a quei tempi barbaro e remoti in cui i cani facevano la guardia, vivevano nella cuccia, correvano liberi nei parchi e mangiavano generiche crocchette. Nel giro di poche settimane, mi sono ritrovata ostaggio di ogni tipo di consiglio (non richiesto) su come prendermi cura del mio amico da parte di gentili sconosciuti. Di sguardi di rimprovero, se solo osavo portarlo fuori senza cappotto nei giorni di vento. Di occhi gonfi di tenerezza, mentre i passanti esclamavano il diritto a un selfie. Di sorrisi di comprensione, quando la dolce bestiola si voleva mangiare tutto il ristorante, e clienti e camerieri – gli stessi che sbuffavano per un neonato che aveva osato piagnucolare nel passeggino accanto – accorrevano subito a compiacerla con una fetta di prosciutto. Mi è stato persino suggerito – seriamente – di aprire account sui social network per condividere ogni momento della crescita del cucciolo, meglio se con un bel ficco in testa. Del resto, sui siti dei principali giornali italiani, le notizie che riguardano dolci gattini o eroici cagnolini sono sempre le più lette. Sprofondavo di vergogna perché non facevo quasi nulla di ciò che mi veniva tanto calorosamente raccomandato e crescevo senza troppi problemi il cucciolo, come avevo fatto con il mio primo cane, dieci anni prima. Intanto mi infilavo in gruppo WhatsApp da duecento persone, il contrappasso canino delle chat che tengono prigioniero ogni genitore di figli di figli in età scolare. La mia rubrica si è riempita di Joda, di Tyson, di Contessa e di Piccolo, perché di quella gente non conoscevo nemmeno il nome, solo quello dei cani. Purtroppo erano, però, gli umani a scrivere, così ricevevo centinaia di notifiche al giorno: nel migliore dei casi, ricette di cucina o indirizzi di centri benessere; nel peggiore e più comune, commenti contro la politica, contro i migranti, contro l’Europa, contro Trump e infine conto il mondo. Io cercavo disperatamente di capire. Dopo un anno, ora che il cucciolo non è più tale, forse ci sono riuscita. Sono, questi, tempi di sentimenti che oscillano contemporaneamente fra eccessi e scarsità. Nel mezzo, tanta solitudine. In un mondo sovrabbondante, come quello in cui viviamo, è facile che un amore scivoli fino a diventare estremismo, come in alcuni casi quello per i nostri animali domestici. Se un tempo la perteraphy era la miglior cura per il pensionato, ora un cucciolo è diventata la social teraphy di moltissimi quarantenni (l’età media di chi ho conosciuto al parco). Sempre più soli, dipendiamo dai nostri cani come da uno smartphone perché, guinzaglio alla mano, ci costringono a uscire dal nostro guscio, dal nostro divano e dal nostro monitor per almeno dieci minuti al giorno, riducendoci a una socialità che non sempre sappiamo ancora gestire. Ma mentre discutiamo del numero giornaliero dei bisogni dei nostri amatissimi cani, sono altri gli amici che cerchiamo, e altre le cose che vorremmo dire di noi.
Andrea Marcolongo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 30 settembre 2017-

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