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domenica 15 ottobre 2017

Lo Sapevate Che: Noi, così individualisti. Ma come lo siamo diventati?...



La Domanda Che le pongo è sull’Italia. Può mai un Paese individualista come il nostro ragionare come una comunità? La nostra legislazione, specie negli ultimi anni, va nella direzione opposta al senso di comunità (la Legge sulla legittima difesa spinge in questo senso) e le disuguaglianze avanzano nell’indifferenza generale. Manca la fiducia. Siamo tutti gli uni contro gli altri. L’Europa è davvero lontana e noi siamo ormai avviati verso un capitalismo sempre più selvaggio, in cui si moltiplicano apparati di tutti i tipi. Chi ne sta fuori ha già perso. E la vera libertà appare come un orizzonte sempre più lontano.
Giuseppe Scannicchio pinoscannicchio55@gmail.com

La Denuncia Che lei fa della nostra cultura individualistica è corretta, così come corretta è la segnalazione delle sue conseguenze disastrose per il nostro Paese. Le radici affondano nella tradizione cristiana, che ha anteposto la sorte dell’individuo a quella della comunità. Nel mondo greco, il primato spettava alla comunità. Nel mondo greco, il primato spettava alla comunità   (polis), a proposito della quale Aristotele, nella Politica (Libro 1,1253a), afferma: “La polis esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo, per la semplice ragione che nessun individuo è autosufficiente, per cui chi non è in grado di entrare in una comunità, o  per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte della polis e di conseguenza o è bestia o è dio”. Dello stesso avviso è Platone che nelle Leggi (Libro X, 90 3c) scrive: “Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha un intimo rapporto con il Tutto e un orientamento a esso, per cui tu sei giusto se ti aggiusti all’universa armonia”. Il cristianesimo. A partire da Sant’Agostino, fissa nell’anima il principio dell’individualità personale e colloca nella sua interiorità la rivelazione della parola di Dio, quindi la verità. Leggiamo infatti nel Commento agostiano al Vangelo di S. Giovanni: “Nell’uomo interiore abita Cristo”; in un altro passo: “Nell’uomo interiore abita la verità”; infine: “Chi ama il mondo non conosce Dio”. Qui pende avvio quella scissione tra individuo e società che avrà il tratto caratteristico della cultura cristiana perché, se la destinazione dell’individuo è ultraterrena, la sua esistenza, pur svolgendosi nel mondo, dovrà essere separata dal mondo stesso, e il senso della sua vita privatizzato o spiritualizzato. All’individuo il compito di conseguire la propria salvezza: alla società e a chi la governa quello di ridurre gli ostacoli che si frappongono a questa realizzazione. Dal momento che la destinazione dell’individuo non ha più parentela con la destinazione della società, si consuma definitivamente la separazione tra individuo e comunità. Perciò Rousseau può scrivere nel Contratto sociale (Libro IV, capitolo VIII): “Lungi dall’affezionare il cuore dei cittadini allo Stato, il cristianesimo li distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale. Siccome la patria del cristianesimo fa il suo dovere, è vero, ma lo fa con una profonda indifferenza, riguardo al buono o cattivo esito dei suoi sforzi. Purché non abbia nulla da rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù”. Nella nostra epoca, caratterizzata dall’egemonia della tecnica, l’individuo è in crisi non perché “si è affezionato allo Stato, ma perché, come lei giustamente ricorda, si sente sempre più funzionario di apparai, in cui la sua individualità dipende dal ruolo che occupa nell’organizzazione. E la sua identità dai riconoscimenti o misconoscimenti all’interno dell’apparato di appartenenza, che richiede un’uniformità di pensiero e di comportamento. Ne consegue, come scrive Max Horkheimer, che: “Riecheggiando, imitando, copiando coloro che lo circondano, adattandosi a tutti i potenti gruppi di cui entra a far parte, trasformandosi da essere umano in membro di un’organizzazione, sacrificando le proprie potenzialità alla buona volontà e alla capacità di adattarsi a quelle organizzazioni e di ottenere una certa influenza nell’ambito di esse, l’individuo riesce a sopravvivere. Deve dunque la salvezza al più antico espediente biologico di sopravvivenza, il mimetismo”. L’individualismo, vale a dire la perversione derivante dalla cultura che ha affermato il primato dell’individuo, quando è contenuto e represso nel mondo del lavoro, e più in generale nel pubblico, si potenzia nel privato. Che diventa quel recinto inviolabile dove nessuno può entrare (non solo i ladri, ma neanche i vicini di casa di cui neppure si conosce il nome), in quella difesa strenua delle cose che si possiedono, e a loro volta incaricate di rappresentare chi siamo. Nella più totale indifferenza nei confronti di quanti, più disagiati di noi, chiedono almeno uno sguardo.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica -7 ottobre 2017 -

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