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lunedì 30 ottobre 2017

Lo Sapevate Che: A ritrovarsi davvero basta un minuto...



Ho Memoria Di Lei da quando ho memoria di me stessa. La leggenda e le nostre madri narrano che la prima volta ci incontrammo nell’atrio del palazzo ’50 in cui vivevamo, lei al terzo io al primo piano. Lei, occhi azzurri e capelli biondo cenere, se ne stava appollaiata sul passeggino con ka curiosità pettegola e vorace dei suoi otto mesi. Io, minuscola, castana e torva, abitavo placida il candore di una carrozzina bianca e blu. Lei era nata a dicembre, io in aprile e per le arbitrarie ingiustizie del calendario ci separava un intero anno scolastico, che non riuscimmo mai a colmare nonostante la sua pervicace determinazione nel farsi bocciare agli esami di seconda elementare dichiarando con diabolica ma vana scaltrezza, che le rondini sono pesci. Fummo, l’una per l’altra, la sorella che non ci era toccata in sorte, la migliore amica, la confidente, la complice. Non ci scegliemmo ma ci trovammo e diventammo reciprocamente necessarie e inevitabili come il destino, per quelli che ci credono. Ai miei occhi incarnava la perfezione, aveva una bellezza diafana, algida, aristocratica, l’agilità di una trapezista, una mamma casalinga, un padre manager, un fratello sadico, la tessera del circolo del tennis, una casa in montagna. Era tutto quello che io, la figlia di genitori separati, accudita da cento baby sitter, impiastro nello sport, allevata a coltivare la mente ben più che il corpo, non sarei mai stata. Forse fu proprio la nostra distanza a intessere la trama del nostro legame. Nella fotografia della mia infanzia ci sono pomeriggi trascorsi a giocare alla maestra strega e all’alunna asina, al dottore sadico e al paziente masochista, all’elastico, alla casa di bambole, a nascondino e, più tardi, a Monopoli. Ci sono ore passate a parlare con una sincerità impudica e disarmata perché tra noi non c’era vergogna né rivalità né pregiudizio. Insieme eravamo libere di essere noi stesse, ombrose, impaurite, trepidanti, fallite, sfrenate. Ci scaldavamo al calore delle reciproche luci e, tenendoci per mano, ci proteggevamo dai rispettivi fantasmi. Completammo l’una accanto all’altra l’alba della nostra femminilità. Insieme ci furono mille prime volte: il primo viaggio in tram da sole, la prima mestruazione, la prima ceretta, la prima vacanza studio in Inghilterra, il primo reggiseno, il primo bazio, il primo amore. Se dovessi disegnare l’amicizia, avrebbe il suo volto, le sue mani affusolate, le sue lentiggini, i nostri silenzi, la nostra ridarella. Eravamo diverse, e nell’età in cui la diversità non è un valore ma un intralcio mettemmo il naso fuori dalla nostra bolla simbolica alla ricerca dell’uniformità che l’altra non poteva regalarci. Ci allontanammo, ci ritrovammo, ci inseguimmo, ci trascurammo, ci tradimmo, Eppure come ex coniugi che si ritrovano amanti, continuammo a riconoscerci in quel territorio clandestino in cui ci incontravamo casualmente. Restò tra noi una familiarità indelebile che non riuscimmo a ignorare neppure quando le nostre strade volutamente divergevano. Il nostro legame, sottotraccia o in superficie, restò lì, immutato a ricordarci chi eravamo. Fu un dono inestimabile e una condanna a vita. “Sono a Milano di passaggio. Ci vediamo?” disse al telefono un sabato mattina. Era passato tanto dall’ultima volta. Abitiamo case, lavori, famiglie e città diverse. Siamo cambiate. La vita fa questo effetto qui. Ci siamo date appuntamento in un posto estraneo e anonimo. Ci siamo abbracciate in fretta, come per sbrigare una pratica formale. “Ehi, ciao”. “ciao, era ora”. E di nuovo, tra noi, c’erano solo quattro mesi di differenza e due rampe di scale, la consuetudine, la prossimità, la consapevolezza che da qui non si scappa. Perché è così che funziona l’amicizia. Ed è per questo che è tanto preziosa.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 28 ottobre 2017 -

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