Sola Con La sua colpa nella borsa, davanti allo
sguardo inquisitore del doganiere Crystal Taddock sentì il brivido del crimine
scorrerle lungo la schiena. “E questa cos’è?”, le chiese l’uomo nell’uniforme
blu della guarda di frontiera, rovistando. “Una mela…”, balbettò Crystal senza
capire. “Da dove viene?”. “Dalla Francia”, rispose le, appena sbarcata da un
volo diretto Parigi-Minneapolis. “E’ stata una vacanza costosa?”, le domandò la
guardia. “Beh, mah, insomma…”, disse, senza capire dove lui volesse andare a
parare. “Se non è stata costosa lo diventerà adesso, perché questa mela le
costerà 500 dollari. L’importazione di frutta da altre nazioni è proibita”. La
storia di Crystal e della mela più cara del modo ha fatto notizia, per tutte le
scontate allusioni alle fiabe famose e alla nota, per quanto mai dimostrata,
trasgressione della nostra antenata Eva. In me il suo caso ha aperto una
cascata di ricordi, e agitato la mia lunga coda di paglia. Sono un
contrabbandiere abituale di tortellini, salsicce, bottarghe, cotechini,
cioccolato, ciccioli modenesi, mortadelline, quarti di prosciutto sottovuoto,
torroni e, tra le altre voci di una merceologia criminale che dura da
trent’anni, i micidiali “ovetti”, proibitissimi perché contengono sorpresine di
plastica giudicate potenzialmente letali per i bambini che accidentalmente le
inghiottano. Come se non potessero ingoiare tutti i pezzettini e i mattoncini
di plastica che formano altri giocattoli. Soltanto nel 2013 la dogana Usa ha
sequestrato 60mila di questi celebri ovetti. Contrabbandare è un vizio di
famiglia. Mia madre, nell’unica visita fatta negli Stati Uniti sfidando il
terrore delle 9 ore di volo Milano-New York, fu sorpresa da un doganiere con
un’arancia nella borsa, che lui procedette immediatamente a sequestrare e a
gettare nell’inceneritore, reggendola fra il pollice e l’indice come un sorcio
morto. Fu lei ad avviarmi, insieme con i miei fratelli e sorelle, a una vita di
crimine, quando riusciva a convincere mio padre a passare la frontiera svizzera
con buste di alluminio del Caffè La Chiassese nascoste nelle nostre braghine
(pungevano le gambe, con quegli angoli aguzzi perché costava molto meno di
quello comperato a Milano. Il mio duello con le dogane è ormai da tempo una
battaglia ideologica, più che economica o gastronomica. Non ci sono più
alimentari italiani che non si trovino anche qui (a parte i cotechini Made in
Usa, che continuano a fare schifo) e la differenza di sapore fra l’ortofrutta
italiana e quella americana, un tempo fortissima, è ormai minima. Né mi
sognerei di importare oggetti o manufatti realmente ignobili, come oggetti
d’avorio, pellicce o piccoli coccodrilli imbalsamati (ancora sequestrati ai
turisti che li portano dal Messico come souvenir; 300 nel 2016). Semplicemente
odio tutte e frontiere, sono allergico ai muri e alle garitte, forse sa quando
trascorsi tre anni dietro la Cortina di Ferro imparando a detestarli, nella
loro torva, disumana, burocratica prepotenza. Capisco la necessitò di
controllare traffici di sostanze micidiali, droghe, danaro sporco ed esseri
umani. Apprezzo la fatica del doganiere, assalito da orde di trafficanti che
lui o lei dovrebbero fermare a colpi d’occhio nel flusso di viaggiatori che
rilasciano dichiarazioni menzognere. Ma quando riesco a passare la frontiera
americana con un cotechino di Modena nascosto in un tubo di cartone da disegno,
a far passare una confezione di bottarga sarda infilata tra libri, due etti di
ciliegie di Vignola, un paio di “tarocchi” siciliani dalla polpa rossa, mi
sento libero. Come Eva, quando diede un morso alla mela della libertà.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 12
maggio 2018 –
Nessun commento:
Posta un commento