Il
fante Giuseppe Ungaretti non amava il celebre ufficiale, già pluridecorato, Gabriele
D’Annunzio. Erano profondamente diversi come poeti e diversa era la loro idea
della vita. E anche la loro visione della guerra. È lì che li incontro, in
occasione del centenario di quel conflitto in cui lo storico Eric J. Hobsbawm
vede l’inizio del “secolo breve”, cominciato con il delitto di Sarajevo nel ’14
e conclusosi nell’89 con l’implosione dell’Urss, Un secolo comunque non tanto
breve se ancora oggi lo scopriamo annidato nel presente, lo ritroviamo nelle
nostre memorie appena ce ne viene offerta una rievocazione. D’Anunzio viveva
quella guerra come un’avventura. Si sentiva un superuomo, un Vate, navigante su
un fiume impetuoso, esultante. Erano in tanti a considerarlo tale. Tra i
soldati che guazzavano nel fango delle trincee non erano comunque in pochi a
pensare che quello di D’Annunzio fosse un bel vivere rispetto alle loro
sofferenze. Anche
il fante
Ungaretti la pensava così. Lui viveva la guerra come un’esperienza grammatica,
piena di orrori: i cui significati sono abissi in cui si nascondono e si
fondono passato e presente. Ungaretti componeva le poesie in trincea, le
scriveva sui pacchetti di sigarette e sulle cartoline. D’Annunzio non faceva in
tempo a comporre un verso che i giornali gli spalancavano le prime pagine e gli
editori i libri delle collezioni più pregiate. Siamo nel 1917, in luglio, tre
mesi prima della ritirata di Caporetto. Ungaretti ha appena pubblicato “Il
porto sepolto”. Un editore di Udine ne ha stampato ottanta copie. Durante una
convalescenza a Venezia D’Annunzio ha composto il “Notturno”, interamente
dedicato a ricordi e riflessioni legati alle esperienze di guerra. In un
atterraggio di emergenza l’urto contro la mitragliatrice dell’aereo ha
provocato una lesione che gli ha fatto perdere l’occhio destro. Nonostante il
parere dei medici, il poeta partecipa all’undicesima battaglia dell’Isonzo,
prepara i famosi voli, in segno di sfida, sul territorio nemico: nel ’18 si
concluderanno con quello spettacolare su Vienna. Quando Ungaretti esprime la
sua collera nei confronti del D’Annunzio esibizionista, è un momento in cui i
giornali, danno molto risalto, anche fotografico, alla presenza del poeta ai
funerali di soldati caduti in battaglia, dei quali celebra l’eroismo e lo
spirito di sacrificio. Trovo
il malumore di Ungaretti nei confronti di D’Annunzio nel volume in cui sono
raccolte “Le lettere dal fronte a Mario Puccini”, editore Archinto. In quella
datata “fine luglio 1917” Ungaretti, che ha ventinove anni, descrive all’amico
ufficiale presso il comando supremo, e nella vita privata editore, i suoi
disturbi fisici e nervosi. Disturbi che lo spingono a opporsi alla promozione a
tenente, obbligatoria per chi ha i suoi titoli di studio. Ungaretti racconta
che arriva sempre in ritardo e spesso ruzzola nel fango; è insomma maldestro,
non adatto a fare l’ufficiale. Come fante semplice è a suo agio nel reparto in
cui si trova da sedici mesi e dove tutti gli vogliono bene. La guerra
preferisce farla da fante. Non desidera assumere responsabilità di comando. E se la prende con D’Annunzio. Il Vate ha
cinquantaquattro anni. Ungaretti gli rimprovera di mettersi sempre in mostra e
di compiere gesti che un fotografo è lì pronto a immortalare. Chiama “pose
plastiche” quelle del poeta che si inginocchia dinanzi ai feretri, il lembo
della bandiera in mano. Con il suo comportamento “nausea” i soldati, e sembra
un “eterna modella”, mentre in ogni casa c’è un lutto, lui “fa il fatuo
esteta”. In queste critiche, ancora più pesanti se non ci fosse il freno della
censura, esplode la polemica sullo stile di vita di D’Annunzio, sul suo
considerare la guerra una ribalta personale, ma si intravede, di riflesso,
anche la polemica sulla sua opera: il precursore dell’ermetismo, parsimonioso
nei versi, contro il campione dell’estetica, generoso nei versi e nei gesti.
Ungaretti, poiché D’Annunzio doveva ancora ignorare l’esistenza di quel poeta
sporco di fango del Carso. Tre mesi più tardi c’è il dramma di Caporetto e la
ritirata verso il Piave trascina con sé l’autore di “Porto sepolto”, che scrive
di essersi sentito “buttato via come una pietra da una violenza bruta”.
Bernardo Valli – Dentro e Fuori –
L’Espresso – 29 aprile 2018 -
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