Qualche Giorno Fa stavo percorrendo a piedi una
di quelle rare e desolate ve cittadine che costeggiano i binari dei treni. La
massicciata era sopraelevata rispetto alla strada e un prato spelacchiato
costellato da malconce seppur tenaci margherite digradava verso il marciapiede.
Era uno spettacolo di struggente squallore che mi ricordò una vecchia canzone
di Francesco Guccini che si chiamava autogrill e diceva, descrivendo la ragazza
dietro al banco, “quasi triste come i fiori o l’erba di scarpata ferroviaria”.
Senza accorgermene accelerai il passo mentre canticchiavo “non la vedi non la
tocchi, oggi la malinconia? Non lasciamo che trabocchi. Vieni, andiamo, andiamo
via”. Perché anche se sono cresciuta, se ho trovato un mio equilibrio e un mio
posto nel mondo, ci sono luoghi ancora capaci di insinuarsi dentro di me e in
un attimo avvelenarmi come una nube tossica. Credo sia un problema di porosità.
Da piccola mi capitava di viaggiare in macchina con il mio papà. Mi piaceva la
nostra intimità abitacolo, le nostre chiacchiere, le nostre canzoni, l’autostrada
che sfrecciava fuori dai finestrini. Lì con lu mi sentivo nel posto gusto per
me. Ogni volta lui voleva andare alla stazione di servizio. “Ci fermiamo alla
prossima”, annunciava. E io venivo colta da inquietudine. Perché allora, alla
fine degli anni ’70, le stazioni di servizio non erano tutte uguali. Ce ne
erano delle, di medie, di brutte e di squallidissime. E io sapevo con certezza
che “la prossima” sarebbe stata del quarto tipo perché lui aveva un talento
nello scovare i luoghi più derelitti dell’universo. Così mi ritrovavo seduta su
divanetti in similpelle consunta, a bere un succo di frutta a un tavolino
appiccicoso, di fronte a lui che, beato sorseggiava il suo caffè amaro e si
godeva il riposo dell’automobilista. E i muri scrostati, la sottiletta bruciata
sulla piastra, il sorriso spento dell’anziano barista si mischiavano al mio
sguardo, al mio umore, ai miei gesti. Inesorabilmente mi rimpicciolivo e da
bambina che ero, diventavo grumo di sconforto. Avrei voluto gridare la mia
cosmica tristezza, scuotere mio padre, spegnere il suo sorriso compiaciuto e
inconsapevole e scappare da lì a gambe levate. Perché ero una creatura porosa e
non mi capacitavo della sua irresistibilità all’ambiente. Quando alla fine
annaspavo senza fiato nel pozzo nero della malinconia, lui, colto da
improvvisa, salvifica intuizione, diceva: “Bè, ora possiamo andare”, e alla
cassa comprava le sigarette e dei biscotti ai fichi ora purtroppo fuori
produzione. Poi in macchina, sgranocchiando la mia madeleine autostradale,
riemergevo dal pantano del mio sconforto.
Un’altra volta, più grande, in vacanza con una compagna di liceo alla
ricerca di un campeggio in Toscana, la costrinsi a girarne una decina prima di
trovare quello giusto, “Perché questo sì e gli altri no?” domandò quando stavamo
montando la nostra tenda, Perché gli altri avevano tutti lo spaccio. “E
allora?” “Il nome “spaccio£ per il negozio di alimentari di un campeggio mi
mette tristezza. Lei mi diede della matta ma restò mia amica. Sono permeabile.
Ho scoperto che è una tara comune. Qualcuno ci nasce, qualcuno ci diventa,
qualcuno è grave, qualcuno no, qualcuno si illude di guarire. E invece ci si
ricasca sempre. Basta poco: una massicciata ferroviaria, una stanza tetra, una
domenica mattina grigia, una vecchia canzone. Per fortuna con l’età si impara
ad aggirare gli ostacoli, a evitare le insidie, ad allontanarsi velocemente. E
quando proprio ci si casca, dentro il pozzo, si diventa veloci a riemergere e a
togliersi di dosso il fango. Con l’età si impara a riconoscere le creature
impermeabili, e a chiedere loro una mano e un pacchetto di biscotti ai fichi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di
La Repubblica – 19 maggio 2018 -
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