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venerdì 25 maggio 2018

Lo Sapevate Che: Consigli per sfuggire alla malinconia...


Qualche Giorno Fa stavo percorrendo a piedi una di quelle rare e desolate ve cittadine che costeggiano i binari dei treni. La massicciata era sopraelevata rispetto alla strada e un prato spelacchiato costellato da malconce seppur tenaci margherite digradava verso il marciapiede. Era uno spettacolo di struggente squallore che mi ricordò una vecchia canzone di Francesco Guccini che si chiamava autogrill e diceva, descrivendo la ragazza dietro al banco, “quasi triste come i fiori o l’erba di scarpata ferroviaria”. Senza accorgermene accelerai il passo mentre canticchiavo “non la vedi non la tocchi, oggi la malinconia? Non lasciamo che trabocchi. Vieni, andiamo, andiamo via”. Perché anche se sono cresciuta, se ho trovato un mio equilibrio e un mio posto nel mondo, ci sono luoghi ancora capaci di insinuarsi dentro di me e in un attimo avvelenarmi come una nube tossica. Credo sia un problema di porosità. Da piccola mi capitava di viaggiare in macchina con il mio papà. Mi piaceva la nostra intimità abitacolo, le nostre chiacchiere, le nostre canzoni, l’autostrada che sfrecciava fuori dai finestrini. Lì con lu mi sentivo nel posto gusto per me. Ogni volta lui voleva andare alla stazione di servizio. “Ci fermiamo alla prossima”, annunciava. E io venivo colta da inquietudine. Perché allora, alla fine degli anni ’70, le stazioni di servizio non erano tutte uguali. Ce ne erano delle, di medie, di brutte e di squallidissime. E io sapevo con certezza che “la prossima” sarebbe stata del quarto tipo perché lui aveva un talento nello scovare i luoghi più derelitti dell’universo. Così mi ritrovavo seduta su divanetti in similpelle consunta, a bere un succo di frutta a un tavolino appiccicoso, di fronte a lui che, beato sorseggiava il suo caffè amaro e si godeva il riposo dell’automobilista. E i muri scrostati, la sottiletta bruciata sulla piastra, il sorriso spento dell’anziano barista si mischiavano al mio sguardo, al mio umore, ai miei gesti. Inesorabilmente mi rimpicciolivo e da bambina che ero, diventavo grumo di sconforto. Avrei voluto gridare la mia cosmica tristezza, scuotere mio padre, spegnere il suo sorriso compiaciuto e inconsapevole e scappare da lì a gambe levate. Perché ero una creatura porosa e non mi capacitavo della sua irresistibilità all’ambiente. Quando alla fine annaspavo senza fiato nel pozzo nero della malinconia, lui, colto da improvvisa, salvifica intuizione, diceva: “Bè, ora possiamo andare”, e alla cassa comprava le sigarette e dei biscotti ai fichi ora purtroppo fuori produzione. Poi in macchina, sgranocchiando la mia madeleine autostradale, riemergevo dal pantano del mio sconforto.  Un’altra volta, più grande, in vacanza con una compagna di liceo alla ricerca di un campeggio in Toscana, la costrinsi a girarne una decina prima di trovare quello giusto, “Perché questo sì e gli altri no?” domandò quando stavamo montando la nostra tenda, Perché gli altri avevano tutti lo spaccio. “E allora?” “Il nome “spaccio£ per il negozio di alimentari di un campeggio mi mette tristezza. Lei mi diede della matta ma restò mia amica. Sono permeabile. Ho scoperto che è una tara comune. Qualcuno ci nasce, qualcuno ci diventa, qualcuno è grave, qualcuno no, qualcuno si illude di guarire. E invece ci si ricasca sempre. Basta poco: una massicciata ferroviaria, una stanza tetra, una domenica mattina grigia, una vecchia canzone. Per fortuna con l’età si impara ad aggirare gli ostacoli, a evitare le insidie, ad allontanarsi velocemente. E quando proprio ci si casca, dentro il pozzo, si diventa veloci a riemergere e a togliersi di dosso il fango. Con l’età si impara a riconoscere le creature impermeabili, e a chiedere loro una mano e un pacchetto di biscotti ai fichi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 19 maggio 2018 -

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