In Vietnam nel 1973, gli ho fatto da autista. Guidavo La
jeep sulla strada di Tay Ninh, che porta in Cambogia, e lui mi ordinava ogni “Stop”,
balzava a terra e fotografava l’esplosione
lontana nella risaia, una donna sul ciglio della strada, un bambino nella
polvere, un gruppo di soldati appostati su una diga, il comportamento
guardingo, allarmato della gente esposta agli imprevisti della guerra. Le
fotografie di Abbas raccontavano la realtà meglio di quel che riuscivo a fare
con le parole scritte. Ogni volta mi dava una lezione. Mi insegnava a vedere
quel che non vedevo. Mi aiutava a costruire le mie corrispondenze mostrandomi
immagini che con il suo sguardo di falco reperiva e che a me sarebbero
sfuggite. Quando ho saputo della sua morte, avvenuta il 25 aprile, ho avuto
l’impressione che si fosse spento qualcosa. Ho cercato di capire quella
sensazione, simultanea di dolore per la scomparsa di una figura umana che mi
piaceva occupasse un posto di rilievo nella più stretta cerchia delle mie
conoscenze. Ero lusingato dal rapporto con lui, lo ritenevo un privilegio. Ho
poi capito che si era spento lo sguardo di cui avevo approfittato non solo in
Vietnam. Uno sguardo diretto, fermo, del quale ogni occhio era un obiettivo,
pronto a cogliere i segni di vita che esprimevano qualcosa degno di essere
ripreso e conservato. Abbas voleva essere chiamato semplicemente così, Abbas,
col suo cognome. E così era conosciuto come fotografo di fama mondiale, un
grande fotografo dall’81 integrato all’agenzia Magnum. Era nato nel 1944 a
Kash, nel Baluchistan iraniano, e a otto anni era stato portato dalla famiglia
nell’Algeria ancora francese, e alla vigilia della guerra di indipendenza. Il
padre voleva diffondere la religione Bahai, corrente messianica minoritaria
dell’Islam sciita, della quale era seguace. Approdato poi in Francia da ragazzo
e diventato cittadino francese, Abbas non aveva dimenticato le sue origini. Quando insieme, nel ’79, passavamo ore nel grande cimitero di Teheran, lui era preso
dalla rivoluzione che aveva appena cacciato lo scià, e condotto al potere
l’ayatollah Khomeyni. Tra le tombe, dove venivano sepolti di gran fretta i
morti, come esige la religione musulmana, potevamo raccogliere notizie tra i
parenti, testimoni della situazione nella capitale e nel paese. Le stesse cause
della morte erano per noi notizie. Abbas parlava il farsi come se non avesse
mai abbandonato l’Iran e, invece delle scuole francesi e inglesi, avesse
frequentato quelle di Teheran. Ma era soprattutto perché sapeva interpretare le
testimonianze. Alla nostra domanda sul come era morto il loro parente, se, in
sostanza, fosse stato ucciso nella repressione dell’esercito di Reza Pahlevi,
tutti rispondevano sì, il congiunto che stavano inumando era una vittima dello
scià. Come? Incalzava Abbas. Le risposte erano sorprendenti. L’influenza, la
polmonite, l’infezione, il tumore, l’incidente automobilistico o sul lavoro,
insomma tutte le cause della morte di chi avvolto in un lenzuolo veniva
ricoperto di terra, erano attribuite allo scià. Anche una morte durante il
parto. All’origine di tutto i lutti c’era Reza Pahlevi che se ne era andato,
che era fuggito, lasciando il posto all’ayatollah Khomeyni, sbarcato a Teheran
il 1° febbraio di quell’anno. Nel cimitero di Teheran, grazie ad Abbas, che
scattava fotografie destinate a renderlo famoso nel mondo, riuscii a capire
l’atmosfera prevalente in Iran, mentre trionfava la rivoluzione islamica. Abbas
era favorevole alla cacciata dello scià, ma ben presto prese le distanze dal
fanatismo della rivoluzione, i cui tribunali improvvisati condannavano a morte
migliaia di oppositori reali o supposti. A Parigi eravamo vicini di casa, e
questo era un motivo di incontri abbastanza frequenti. Ma hanno contato quelli
sul lavoro. Ricordo l’incontro a Kabul al momento dell’intervento americano
dopo l’attentato alle torri gemelle di New York, nel 2001; e poi quello di
Baghdad nel 2002, durante l’invasione sempre americana dell’Iraq. Guardavo le
sue fotografie scattate in quelle occasioni e trovavo che spiegassero la
situazione meglio dei nostri articoli. Negli ultimi tempi Abbas evitava i
conflitti, si dedicava alle religioni. Per anni ha raccontato con le sue
fotografie, raccolte in libri, l’Islam e l’islamismo, il cristianesimo, il
giudaismo, l’induismo, il buddismo. Diceva di non avere mai avuto intimità con
Dio, ma lo interessava il fatto che in suo nome la gente facesse cose
inaccettabili.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 13 maggio 2018
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