Sapeva Parlare del popolo senza
essere populista. Raccontava i lavoratori nella loro quotidiana fatica, ma non
era marxista né seguace di una dottrina per cui la classe operai avrebbe un
giorno trasformato il mondo e reso l’umanità libera e felice. Era cristiano
credente, convinto che la storia della crocifissione fosse stata una storia di
vera remissione di colpa, ma era lontano dal Verbo in versione clericale.
Quando se ne va un maestro – ed Ermanno Olmi, scomparso il 7 maggio era un vero
maestro del pensiero, non solo del cinema – si dice che lascia un vuoto incolmabile.
Una frase banale? Forse, ma non per questo meno vera. Olmi era consapevole
della propria grandezza ed eccezionalità e tuttavia a parlargli ci si trovava
davanti a una persona umile e disponibile, convinta delle proprie ragioni ma
mai tentata di imporle all’interlocutore. E, soprattutto, in un’epoca in cui
spesso, nell’ambito della cultura, viene posta una secca alternativa tra
eccellenza (roba per élite, secondo i populisti) da un lato e ricerca di
popolarità (tv spazzatura, secondo le élite) dall’altro, il regista nato a
Bergamo, cresciuto a Treviglio e ritiratosi negli ultimi anni sull’altopiano di
Asiago, sosteneva che si potesse al contempo fare eccellenza e parlare al
popolo e del popolo. Sia permessa una parentesi personale. Anni fa a Gavoi, in
Sardegna, sede di un bel festival di letteratura, Olmi mi chiese di mettermi al
suo tavolo, nel giardino dell’albergo. Dirigevo allora le pagine di cultura di
questo settimanale. E senza preamboli, mi disse, appunto questo: va bene
l’eccellenza, va bene la ricerca, ma non ti dimenticare del popolo, Per me fu
una lezione di vita (e non solo di mestiere). Infatti, lui faceva film dove la
ricerca formale ed estetica diventava una presa di posizione etica,
esistenziale e politica ma che narravano storie di persone semplici. A partire,
come si diceva prima, dal lavoro. Nel film “Il posto”, girato nel 1961 e spesso
considerato un’opera in continuità con il neorealismo (non lo è; è invece
l’inizio di un percorso personale di Olmi) si racconta la storia di un uomo e
una donna in una Milano del boom, alla ricerca di un lavoro ma anche dei
sentimenti. Ma, per dirla brutalmente, la vita cittadina, il lavoro “alienato”
(direbbero i marxisti) comportano tristezza e morte del desiderio. E ancora, in
“Milano 83” un film che nelle intenzioni dei committenti avrebbe dovuto
celebrare la Milano godereccia e spensierata anticipatrice di quel fenomeno
post-moderno che possiamo definire come l’abolizione del tempo (la vita è solo
un presente), Olmi mette la sua cinepresa al servizio di coloro che lavorano di
notte. Il regista comincia il racconto dallo spettacolo alla Scala per poi
mostrare il popolo grazi al quale i signori possono esibire la loro eleganza.
Tutto questo senza demagogia e con serenità d’animo e delle immagini. De
“L’albero degli zoccoli” (1978), infine, è stato detto tutto; dall’accusa di
apologia di un mondo chiuso (i contadini) all’esaltazione della fedeltà alla
terra. In un’intervista all’Espresso, qualche anno fa, Olmi disse che la zolla
non tradisce. E ribadiva la sua diffidenza verso le città fatte di soli
commerci. Ma poi era un uomo eclettico, con tratti di cosmopolitismo, in una
recente conversazione con Gad Lerner esaltava l’Europa come una patria comune
di tanti popoli. E del resto, sempre con L’Espresso si definiva “ebreo”, perché
il cristianesimo secondo lui era solo un ramo di quell’albero che era appunto
l’ebraismo; un modo per dire: ci tengo alle radici, ma guardo altrove.
Wlodek Goldkorn – Cultura – L’Espresso – 13
maggio 2018 –
Nessun commento:
Posta un commento