Mi Attendono A Casa bambini africani affamati,
processione di madri macilente, sguardi strazianti d cani in gabbia,
processioni di reduci maciullati dalle guerre, profughi, sfollati, malati,
orfani di ogni colore, latitudine, continente che attendono da me la salvezza.
La mia cassetta della posta trabocca di appelli disperati. Ogni giorno
l’immensa e infinta industria benefica della carità, che negli Stati Uniti vale
400 miliardi di dollari all’anno, mi costringe a fare la parte di Dio e
decidere se devo salvare la vita a un bambino malnutrito in Africa o a un
paziente pediatrico, se siano più importanti i can abbandonati o se debba
invece contribuire a strappare un elefante al fucile del bracconiere. Ricevo in
media cinque diverse richieste al giorno, ormai inghiottito dal gorgo della
beneficenza, che si espande perché enti e organizzazioni caritatevoli si
trasmettono la lista dei benefattori in una catena di Sant’Antonio senza fine,
ora che in Rete nulla è più riservato. Dalle agenzie delle Nazioni Unite alla
stazione di pompieri alle ambulanze del mio quartiere, dalla Croce Rossa
Internazionale alla parrocchia che organizza le mense dei poveri, la
processione dei questuanti è interminabile. Lo Stato non esita a bruciare
almeno 200 milioni di dollari in 20 minuti per bombardare il nulla in Siria, ma
non trova quella stessa cifra per tenere aperto l’unico policlinico pubblico
della capitale, a Washington. Questa incomprensibile, imperdonabile
indifferenza morde la coscienza, ma l’inevitabile charity fatigue,
l’“esaurimento da carità” denunciato ormai dai ricercatori, ti affetta e ti
accascia. E il terrore di attirarsi un uragano di richieste rende prudenti e
diffidenti. Alcuni mesi or sono decisi di contribuire a una catena di ospedali
pediatrici specializzati in oncologia, dove sono accolti piccoli pazienti dagli
Usa e dal resto del mondo, per loro senza alcuna speranza. Le strutture furono
fondate 50 anni fa da un famoso e ricchissimo comico; oggi sono totalmente
sorrette da lasciti e donazioni. Poche settimane più tardi, dozzine di ospedali
finanziati da benefattori privati avevano individuato il mio nome, e lanciato
il bombardamento. Un ventaglio di impossibili scelte e di ricatti morali si
spalanca davanti a chi voglia contribuire alle buone cause e non possa, come
Bill Gates di Microsoft, destinare buona parte dei propri miliardi a una sola
fondazione. Quale catastrofe naturale meriti soccorso? E perché? Quale causa
politica, quale movimento è più meritevole? I ragazzi che hanno formato
un’organizzazione per limitare la diffusione delle armi d’assalto, dopo la
strage al liceo in Florida, sono più o meno apprezzabili della storica
associazione che si batte per la difesa di libertà e diritti civili? E se ho
escluso contributi e partiti politici dopo un incauto versamento di 20 dollari
alla campagna elettorale di Barack Obama nel 2008, che mi fece esplodere il
telefono con chiamate di instancabili robot, ogni ospedale, ogni ente benefico,
ogni fondo di emergenza merita pari attenzione, anche escludendo quelli che
hanno fama di sprecare troppi soldi in spese amministrative. Alla fine,
l’esaurimento da beneficenza, l’aggressività dei cercatori di fondi induriscono
il cuore, incalliscono le mani, generano insomma autodifesa. Getto via
bracciate di bambini famelici, cani perduti, reduci mutilati. Ignoro le
adozioni a distanza di orfani centroamericani. Ignoro le adozioni a distanza di
orfani centroamericani per solo 2 dollari al mese e lascio gli elefanti al loro
destino. Scelgo fra tragedie da ignorare e altre da alleviare, in un esercizio
di disumana selezione che lascia sempre in bocca il rimorso per quello che non
ho dato.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 5
maggio 2018 -
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