Arrivano Nelle Stesse ore due notizie importanti nella casa di uno dei miei nipotini, che poi
nipotini cominciano a non essere più, essendo ormai alti come me, che non è
molto, ma loro a 13 anni si accontentano. (Da mesi non parlavo più di nipotini,
perdonate, ho accumulato un certo credito e una buona dose di astinenza). La
prima notizia riguarda la scuola. Dopo settimane di prove scritte e orali, di
test di matematica e di lingua, di contorcimento di mani e insonnia di mamme,
il nipotino viene accettato, bontà loro, nel prestigiosissimo e antico liceo di
Washington dove hanno studiato presidenti americani, vice presidenti, senatori,
deputati, governatori, uomini di scienza e di lettere. La seconda notizia
arriva dal “coach”, dall’allenatore della squadra di calcio che decreta
l’esclusione del medesimo nipotino dalla squadra ufficiale della scuola, perché
lo informa spietato, “non è risultato ancora tecnicamente pronto” ai provini.
Nella stessa casa, nello stesso giorno, piombano insieme la gioia dei parenti e
la disperazione del fanciullino, che avrebbe volentieri rinunciato
all’ammissione nel prestigiosissimo liceo in cambio di una maglia nel team
della scuola, anche a scaldare la panca col sedere. Tutta la gamma dell’orgoglio
genitoriale e della delusione filiale, si dispiega, spalancando l’abisso che
separa la visione del mondo e della vita di un tredicenne e degli adulti che lo
circondano. È inutile cercare di spiegargli che le sue probabilità di diventare
da adulto un calciatore professionista sono più o meno le stesse di essere
colpito da un meteorite, mentre un titolo di studio conseguito in una scuola
che lo ha accettato per meriti può aprire la porta di buone università e quindi
di migliori occasioni professionali. Che il pallone è un gioco, un
divertimento, un’ottima attività sportiva che al massimo farà di lui un futuro
campione nelle partite di calcetto fra scapoli e ammogliati con pancetta del
reparto pagine e contributi e il resto è la vita vera, dove la differenza fra
sbagliare o fare un goal può significare un buon lavoro gratificante o
un’esistenza a friggere hamburger in un fast food. Soprattutto in questi Stati
Uniti d’America dove i titoli di studio non hanno valore legale e la differenza
è fatta dal marchio della scuola, del liceo, dell’università stampato sul
diploma. Neppure provo, io il nonno, ad annoiarlo con trombonate sulla
gerarchia delle cose importanti nella vita perché mi sentirei intollerabilmente
ipocrita. Ricordo troppo bene la bruciante umiliazione nell’essere escluso
dalla squadra di basket del mio liceo perché giudicato, come si dice nel gergo
tecnico più sofisticato una “pippazza”, o la fatica per essere arruolato in
squadrette di calcio come portiere soltanto perché quello è il ruolo riservato
agli scarsi, che nessuno dei forti vuol coprire. Quell’esclusione dal “top
team” è la prima scoperta dei propri limiti, del fatto che non sei il più
bello, il più intelligente, il più bravo come ti ripetono i tuoi quando ti
portavano in passeggino. Esattamente come quei genitori e nonni dovranno
rassegnarsi al fatto che i loro figli non diventeranno tutti Ronaldo, se
giocano al pallone, Federica Pellegrini se nuotano e Steve Jobs se smanettano
coi computer. Vorrei dirgli che è da come affronti l’incontro coi tuoi limiti
che viene la speranza di una vita adulta utile e non rancorosa, di un
accettabile serenità e dimolte gioie, lavorando attorno a quello che non puoi
fare, valorizzando quello che sai fare. Vorrei dirglielo, ma non glielo dico,
perché lo imparerà da solo, come i più fortunati di noi hanno imparato a fare
senza esserne schiacciati. E le partite fra scapoli e ammogliati, mio caro
nipotino, sono più divertenti di una finale dei Mondiali.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 28 aprile 2018 -
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