Si Moltiplicano Ormai gli episodi (che evidentemente non sono più solo episodi) di aggressioni
fisiche da parte di studenti e genitori ai danni dei professori, come il caso
della professoressa di Alessandria che è stata legata alla sua sedia, percossa
e ripresa con un cellulare, quindi il video è stato postato su Instagram. Chi
conosce la scuola sa come ormai il clima di tensione che si respira nei
confronti dei soggetti più deboli sia arrivato a livelli estremi. Ciò che
invece ci ha lasciato stupidi è stato da un lato il provvedimento di una
sospensione scolastica di un mese, per giunta con l’obbligo di frequenza, nei
confronti degli autori di questo crimine, e dall’altro le parole della stessa
docente oltraggiata che ha fatto: “È stata una goliardata, sono stati presi
provvedimenti e i ragazzi mi hanno anche chiesto scusa. Spero non lo facciano
mai più”. Una goliardata? C’è da ritenere adeguato questo termine, dettato
forse da una sorta di sudditanza psicologica, che a sua volta è il frutto di
una sudditanza sociologica in cui versa l’istituzione scolastica nei confronti
appunto di un quadro ormai completamente disgregato della vita aggregata? Quale
razionalità ancora ci permette di distinguere (e insegnare questa distinzione
ai ragazzi) fra la vigliaccheria e la goliardia? Fra il gioco e il giogo, che
oggi va sott la vulgata inflazionata, ma a quanto pare non sanzionata, di
bullismo?
A Suo Tempo Kant scriveva che la differenza tra
il bene e il male potremmo anche non definirla, perché ciascuno la sente
naturalmente da sé. Uso proprio il verbo “sentire” (fühlen). Oggi non è Più così. E l’episodio che lei racconta, non
dissimile da tanti altri analoghi, lo dimostra. Lei interpreta la risposta
della professoressa, che ha definito l’episodio una “goliardata”, come una
forma di sudditanza psicologica dell’insegnante, dovuta a sua volta alla
sudditanza sociologica in cui versa oggi la classe dei professori, se non
addirittura l’intera istituzione scolastica. Può essere come lei dice, ma io
penso anche che con quella risposta la professoressa abbia voluto segnalare il
senso che quell’episodio rivestiva per i ragazzi: niente di più che una
“goliardata”. Attribuire all’episodio questo significato, come solitamente fanno
i ragazzi e i loro genitori, è enormemente più grave dell’episodio stesso,
perché segnala che quei ragazzi non avvertono alcuna risonanza emotiva che
consenta loro di “sentire”, come diceva Kant, la differenza tra il bene e il
male, tra ciò che è grave e ciò che grave non lo è, tra parlar male di un
professore come tutti abbiamo fatto e prenderlo a calci, tra corteggiare una
ragazza o stuprarla. Se in questi ragazzi s’inceppa questo sentimento, il
terribile è già accaduto. Qualcosa di più terribile dell’episodio in sé, perché
in loro si è spenta, o addirittura non si è mai accesa, quella sensibilità che
non ti consente di compiere certi atti così deprecabili. La desertificazione
della vita emozionale, oltre all’inaridimento della vita interiore, porta all’insubordinazione
alle norme sociali in soggetti che non si sentono mai se stessi, mai
sufficientemente attivi se non quando superano se stessi senza riguardo alcuno,
probabilmente senza nessuno percezione del concetto di limite, mai acquisito,
perché n famiglia mai nulla è stato loro negato. L’effetto di questa educazione
permissiva, tipica del nostro tempo, che ha contagiato non solo i ragazzi, ma
anche i loro genitori e qualche loro insegnante, non consente più di
riconoscere il limite tra un atto di esuberanza e una vera aggressione, tra una
forma di insubordinazione e un misconoscimento di ogni autorità, tra un
comportamento seduttivo e un abuso sessuale. E tutto ciò accade tra la
preoccupazione tardiva dei genitori, l’impotenza degli insegnanti e il complessivo
disorientamento nella società, dove a conoscere questi ragazzi, meglio dei loro
genitori e dei loro insegnanti, sono gli operatori di mercato. Che fare per
ridurre il livello di questo modo di vivere e di comportarsi per effetto di
quella sindrome che gli psichiatri chiamano “sociopatia”? Ricostruire quei
luoghi di socializzazione che un tempo erano gli oratori, le sezioni di partito
e i centri sportivi, per facilitarne l’aggregazione e consentire a questi
ragazzi di dire “noi” non solo riferendosi al cascame della socializzazione che
è la banda. Offrire insomma alternative agli unici luoghi di ritrovo che sono i
bar dove si beve, e le discoteche dove, oltre ai percorsi della droga (inutile
nascondercelo), si sperimenta quello stordimento dell’apparato emotivo che
innesca atteggiamenti oscillanti tra l’opacità dell’indifferenza e
l’esaltazione della violenza che non si può rubricare tra le goliardie.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 28 aprile
2018 -
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